Lidl rompe il miope immobilismo sui salari dei gruppi italiani. Salutare lezione

Dario Di Vico

Il discount tedesco in Italia va a gonfie vele e crea mille posti di lavoro l’anno. Mette al centro della propria azione i dipendenti e prova a costruire una narrazione “potabile” del lavoro nei supermercati. Mentre la Gdo italiana è ossessionata dal contenimento dei costi e incapace di affrontare le discontinuità e i cambiamenti

Con una scelta a sorpresa, Lidl Italia ha rotto il fronte del no al rinnovo del contratto di lavoro della grande distribuzione. Il grande discount tedesco presente in Italia (20 mila dipendenti e 700 punti vendita) in un colpo solo è uscito dall’associazione di categoria dove era entrato due anni fa, la Federdistribuzione, e ha dichiarato di adottare il contratto firmato pochi giorni fa dalla Confcommercio per il terziario. Lidl in Italia va a gonfie vele, crea mille posti di lavoro l’anno, ha un’ottima interlocuzione con il governo e ha anche partecipato alla sfortunata esperienza del Carrello tricolore lanciato dal ministero di Adolfo Urso.

    
Insomma ha tutte le carte in regola per voler lavorare sodo e veder crescere i consumi. E quindi giudica “inaccettabile” che i suoi dipendenti restino per più di 4 anni senza rinnovare il proprio contratto a causa della miopia dei gruppi dirigenti della grande distribuzione italiana, rimasti incastrati in una competizione al loro interno tra falchi e colombe. È presto per capire se la mossa di Lidl avrà conseguenze sul negoziato in corso ma è di sicuro una notizia importante. Si pensava infatti che dopo il contratto del terziario quello della Gdo seguisse quasi di default e invece la trattativa si è arenata non sulla richiesta salariale ma sul controllo della flessibilità in azienda. I sindacati confederali di categoria hanno replicato con veemenza fino a indire uno sciopero pressoché immediato per il sabato di Pasqua, iniziativa che in verità – viste le tradizioni della forza lavoro impiegata nei supermercati – non ha avuto il successo sperato. Ma indubbiamente la rottura del fronte interno a Federdistribuzione non può che aver fatto piacere ai sindacati.

  
E’ significativo, infatti, che un campione del discount che quindi dovrebbe essere tarato su una cultura del low cost in realtà sostenga il contrario. Metta al centro della propria azione i dipendenti, il loro attaccamento quasi comunitario, la responsabilità aziendale. Tutte acquisizioni che evidentemente non sono presenti dentro i grandi gruppi italiani incapaci di darsi una politica delle relazioni industriali moderna. Eppure c’è da fare i conti non solo con la soddisfazione e la produttività della forza lavoro già impiegata ma è necessario costruire una narrazione “potabile” del lavoro nei supermercati e della turnistica ininterrotta per poter sperare di attrarre personale nei prossimi anni e non trovarsi di fronte a situazioni come quelle dell’Atm di Milano che non riesce a ingaggiare autoferrotranvieri. E’ abbastanza singolare che questa battaglia la faccia un discount, per di più straniero, ma tant’è. C’è una lezione da apprendere anche nell’episodio della sortita Lidl.

   
Più in generale è vero che i discount sono profondamente cambiati. Anche lo stile architettonico dei nuovi punti vendita è decisamente curato al punto che quelli di Lidl parlano di “supermercato con il cuore discount” e sono alla costante ricerca di una patente di italianità. È cambiato nel frattempo anche il consumatore che li frequenta, ormai da loro si può trovare la famiglia media italiana che ha superato ogni remora e trova soluzioni soddisfacenti in punti vendita che si trovano in strade di facile accesso e sono dotati di ottima visibilità. E’ significativo anche che in Lidl l’84 per cento dei dipendenti goda di un contratto a tempo indeterminato, proprio a sottolineare l’importanza della relazione con il personale che guida le scelte del gruppo. Evidentemente non è così nel più ampio panorama della Gdo italiana ossessionata dal contenimento dei costi e restia a dotarsi di una cultura del business capace di affrontare le discontinuità e i cambiamenti.

 

Per carità, il contratto della Confcommercio (240 euro di aumento a regime e una tantum da 350 euro) non è certo un limpido esempio di innovazione delle relazioni industriali, ma quantomeno ha tolto il macigno della mancata evoluzione delle retribuzioni e ha permesso di creare un clima di maggiore collaborazione. La ripresa dell’economia italiana è appesa, oltre che alla ripresa degli investimenti, a un rilancio dei consumi e i rinnovi contrattuali aiutano a bilanciare quantomeno la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori subita nel 2023, compensata da una dinamica più sensata delle retribuzioni. Infine non si può estrapolare il ritardo con cui il terziario rinnova i suoi contratti dalla “pagella” generale del settore. Se abbiamo una manifattura tutto sommato competitiva, i servizi in Italia appaiono ancorati a una cultura low cost che offre salari bassi, ricorre alle false partite Iva e ha una produttività ai minimi. Il guaio è che complessivamente nella società italiana, compresa quella “colta”, c’è poca attenzione su questa realtà, non si coglie che lo sviluppo dovrà passare dalla risoluzione di questi nodi. Non possiamo pensare di potercela cavare sine die a buon mercato. Ed è singolare che per ricordarcelo serva un colpo d’ala dal mondo del discount.