Tim - foto Ansa

L'analisi

Un'alternativa al piano kamikaze dello scorporo della rete Tim

Sergio Boccadutri e Carlo Stagnaro

Più che una ristrutturazione il piano "Free to run" sembra l’anticamera della messa in stato di liquidazione, mentre ostacoli regolatori e tecnici rendono complicati gli obiettivi prefissati dall'ad Pietro Labriola. Ma c'è un'altra strada possibile 

C’è un motivo per cui la borsa ha bocciato il piano “Free to run” di Tim: più che una ristrutturazione sembra l’anticamera della messa in stato di liquidazione. L’ad, Pietro Labriola, ha dichiarato due obiettivi: la riduzione del debito e la sostenibilità del business. Secondo analisti e investitori, non raggiungerà né l’uno né l’altro. Il prezzo di vendita della rete Tim (circa 20 miliardi di euro) è inferiore agli oltre 30 miliardi che molti ritengono il suo valore effettivo. Infatti, gli investimenti programmati e gli sviluppi tecnologici attesi ne fanno un asset fondamentale. Inoltre, una volta alienata la rete, Tim rimarrebbe una società di vendita sostanzialmente priva di asset ma gravata da un debito elevato (superiore ai 7 miliardi).

Come ha notato Stefano Cingolani sul Foglio, è improbabile – data la forte concorrenzialità e i bassi margini – che la vendita dei servizi a valle possa generare flussi di cassa sufficienti a mantenere la società in attivo. Finora Tim non ha dato prova di saperne estrarre sufficiente valore: perché mai dovrebbe diventarne capace proprio spogliandosi del suo asset più prezioso? Senza la rete Tim si priverà di un fattore determinante nell’offerta di servizi business alle Pmi, la cui domanda è destinata a crescere. Questa strategia non può che condurre alla ricerca di un compratore per Tim, nella logica di un progressivo consolidamento sulla scorta dell’accordo tra Fastweb e Vodafone. Sul closing gravano non pochi rischi legali: sia Vivendi, sia altri azionisti di minoranza si ritengono penalizzati dall’accordo, e ne contestano la legittimità procedurale, anche alla luce del doppio ruolo di Cdp (azionista sia di Tim sia di Open Fiber). Ci sono, poi, criticità tecniche: separare la rete è un’operazione complicata, diversamente da altri settori (quali la trasmissione di energia elettrica e il trasporto del gas) dove il perimetro dell’infrastruttura è chiaro. Tant’è che nessuno in Europa se lo sogna, e nel resto del mondo ci hanno provato – con risultati deludenti per i consumatori – solo l’Australia e la Nuova Zelanda.
 

A questo si accompagna un buco nero regolatorio: l’impalcatura normativa è pensata per disciplinare la gestione di reti controllate da imprese verticalmente integrate e in concorrenza tra di loro. Il progetto italiano persegue invece la disintegrazione verticale per costruire un monopolio infrastrutturale (la “rete unica” o “nazionale” appunto). È una terra di nessuno: come si può pensare di concludere un’operazione tanto importante senza conoscere nel dettaglio la regolazione del futuro? E come si può disegnare la regolazione senza avere un’idea precisa della struttura del mercato risultante? Ultimo, ma non meno importante, Tim potrebbe aver fatto i suoi conti italiani senza l’oste europeo. Nell’immediato, non è scontato che – ai fini del controllo delle concentrazioni – l’Antitrust Ue dia il via libera alla “rete unica”. Il tema è la fusione con Open Fiber: cioè la creazione di un quasi-monopolio dove oggi c’è concorrenza.
 

In prospettiva, anche il progetto di spingere Tim all’interno di un’aggregazione più grande potrebbe rivelarsi impossibile. A torto o a ragione, si ritiene infatti che il numero di grandi operatori attivi sul mercato italiano dei servizi non dovrebbe scendere al di sotto dei tre-quattro: quando H3G e Wind si misero assieme, la Commissione subordinò il merger all’ingresso di Iliad. Le stesse forche caudine dovranno essere superate da Vodafone e Fastweb. A quel punto, una ulteriore concentrazione del mercato diventa una mission impossible. A fronte di tutti questi problemi, non è chiaro il beneficio per il paese. Anzi: ci sarebbe un enorme dispendio di risorse e denari pubblici (il Mef interverrà con 2 miliardi di euro) e privati, in un momento di rallentamento dell’economia e di sofferenza delle finanze pubbliche. Cdp dovrebbe tirare fuori 5 miliardi di euro: è davvero l’utilizzo migliore dei soldi dei risparmiatori postali? Davvero, per promuovere lo sviluppo del paese, non c’è di meglio che acquistare quote di capitale di imprese esistenti? L’aspettativa è che neppure sarà sufficiente a risolvere i problemi di Tim col suo debito, senza contare che gli esuberi di circa 25 mila lavoratori, a ridosso delle elezioni europee, potrebbero infuocare ulteriormente la questione.
 

Eppure, un’alternativa ci sarebbe: conferire la rete all’interno di una società ad hoc, da quotare tenendo in pancia a Tim del 51 per cento del capitale. In tal modo, non vi sarebbe alcun cambiamento sostanziale nella governance del settore, quindi neppure i conseguenti ostacoli. Inoltre, Tim potrebbe incassare il fair value della rete, la Cdp non dovrebbe sborsare miliardi preziosi e il quadro delle regole non ne sarebbe sconvolto. Perché pretendere di seguire una via complicata, quando un risultato migliore potrebbe essere raggiunto in modo più semplice e diretto? 

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