Stabilimento Stellantis a Mirafiori - foto Ansa

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Da Mirafiori a Bagnoli, fino Termini: ecco le città della ruggine. Si aggiungerà pure Taranto con l'ex Ilva

Stefano Cingolani

A Roma promettono che l’acciaieria tarantina non farà la stessa fine, ma il copione è lo stesso di altre grandi dismissioni, di salvataggi costosi e impossibili. Indagine di archeologia industriale parento da i grandi fallimenti del passato

Termini Imerese abbindolata da false promesse; la terra desolata di Bagnoli svuotata dalla “Dismissione” (titolo del romanzo di Ermanno Rea); Taranto minacciata della stessa sorte; fino all’agonia di Mirafiori. Ebbene sì, la ruggine si posa anche su Torino. La capitale dell’auto ha cercato di metabolizzare la crisi, ma non ha elaborato il lutto e il lungo addio della Fiat ha emarginato la città. Milano reagisce meglio perché non è mai vissuta di un solo pane. In questa Italia che colleziona archeologia industriale sono ormai molte le città ossidate dal tempo, centri pulsanti di opere, di fatica, ma anche di modernità dove un tumultuoso passato lascia il campo a un silente futuro. Tanti denari pubblici e privati gettati in un pozzo di san Patrizio. Tante storie di salvataggi costosi e impossibili accompagnano in un tessuto purulento la caduta della grande industria e la mancata resurrezione per mano dello stato. L’Ilva non farà la stessa fine, promettono a Roma, ma il copione è sempre lo stesso: il commissario, la cassa integrazione, gli assegni che escono dalle casse esauste del Tesoro. Una estenuante coazione a ripetere.

 

 

I fantasmi di Mirafiori 

I tram sferragliavano nel buio ghiacciato in quelle aurore torinesi orfane dell’alba e scaraventavano sui binari di corso Unione sovietica “sotto una nebbia bruna, una folla che io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta”. Peccato che non fosse lì Thomas S. Eliot invece di passeggiare per il London Bridge: la sua “Terra desolata” si sarebbe riempita di ben altri umori. Lui sì che sorseggiava champagne, non quegli studenti e quegli operai “uniti nella lotta”. Attendere la luce alle porte dello stabilimento era una una prova di maturità, anzi un percorso iniziatico per i giovani figli di baroni universitari, di acclamati professionisti, dirigenti industriali, capitalisti persino (Feltrinelli docet), mentre assonnata, infreddolita, straniata (quanto piaceva allora questa locuzione) la classe operaia, quella vera, marciava non verso il socialismo, ma dentro la fabbrica integrale, ingoiata nell’universo alienante della catena di montaggio dove l’individuo diventava massa e l’uomo macchina. “E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi”. Che ne sanno i ministri contadini, bisogna aver vissuto nella “città irreale”, occorre aver visto 22 mila uomini e donne entrare e uscire giorno e notte dai cancelli presidiati dai sorveglianti, per lo più ex carabinieri in divisa Agnelli, mentre venivano bersagliati da volantini rossi e neri. Bisogna avere una certa età per ricordare quella gigantesca macina degli spiriti chiamata Mirafiori, Milafior in antico dialetto piemontese, mille fiori che non fioriscono più. Occupa ancor oggi una superficie di due milioni di metri quadrati. Al suo interno si snodano venti chilometri di linee ferroviarie e 11 chilometri di strade sotterranee che collegano i vari capannoni. La palazzina degli uffici, che si affaccia su corso Giovanni Agnelli, è alta cinque piani, lunga 220 metri, ricoperta di pietra bianca proveniente da Finale Ligure. Venne inaugurata da Benito Mussolini il 15 maggio 1939 e per la prima volta il senatore Agnelli indossò la camicia nera (sembra che se ne fece tingere una bianca). Il più grande stabilimento industriale d’Europa, organizzato secondo la ferrea logica razional-gerarchica di Henry Ford, ha sfornato 25 milioni di automobili Fiat. E tutti erano così attaccati a quell’acronimo che se uno si presentava in Alfa Romeo veniva invitato fermamente a parcheggiare altrove. Verrà smantellata da un portoghese passato alla Francia o a chiunque lo paghi milioni di euro, lo chiamano manager globale, quei ragazzi di allora avrebbero evocato l’Arlecchino goldoniano.
 

Si può chiamare Fca o Stellantis, ma per tutti è sempre Fiat e ancora oggi resta la più grande manifattura privata dell’Italia. Un tempo era  “lo stato nello stato” (non sappiamo se fu Gramsci o Mussolini il primo a chiamarla così), oggi è un superstato nello stato per la sinistra radicale, una nazione straniera nella nazione italiana per la destra meloniana, ma è sempre lei a condensare angosce, preoccupazioni, odi, mai amori. A Mirafiori adesso lavorano appena 3.200 operai, nel 2023 hanno costruito 85.940 auto, il 9,3 per cento in meno rispetto all’anno precedente; si tratta di 500 Bev (elettriche a batteria) e Maserati Levante, Ghibli, Granturismo e Grancabrio che hanno deluso (-49 per cento rispetto al 2022). Secondo alcuni la sua sorte è segnata. Carlos Tavares, il plenipotenziario di Stellantis, dice che sarà sempre più il centro di progettazione, il cervello per i marchi italiani. Tuttavia persino il cervello di Einstein è più piccolo del suo corpo. 
 

Intanto si fermano la Maserati e la 500 elettrica, così arriva altra cassa integrazione. Il gruppo francese con propaggine italiana ha annunciato ai delegati sindacali della Carrozzeria di Mirafiori ancora tre settimane di fermata produttiva per 2.260 addetti dal 12 febbraio al 3 marzo. “Il 2024 non poteva iniziare peggio di così. Dopo lo stop per un intero mese a cavallo dell’anno, ecco che arriva la nuova comunicazione di cassa integrazione. Sono numeri inquietanti, tanto più alla luce dello sbarco nel mercato statunitense della 500 elettrica”. Con il 2024 siamo entrati nel diciassettesimo anno consecutivo di utilizzo degli ammortizzatori sociali in Carrozzeria.
 

Il piano strategico a lungo termine (la definizione non è sovietica, ma francese) prevede a Torino l’apertura di uno stabilimento per le nuove trasmissioni elettrificate, si promettono economia circolare, batterie, meraviglie a 400 volt (tante ne servono per le auto elettriche). Ruggine? Ma quale ruggine, a Mirafiori fiorirà un Green Campus con diecimila cervelloni, tecnici, ingegneri, ricercatori. Da quando? Dopo il dicembre 2025, fra due-tre anni insomma. Quel piano è già superato dai fatti come sempre accade quando la razionale purezza pianificatoria incontra la grumosa realtà. E il verde così diventa il colore della rabbia per le occasioni perdute.
 

Intanto arrivano i supermercati. Sono in lizza le Coop e Poli per un ampio spazio, l’area è in vendita per 15 milioni di euro, ma attenzione, anche l’èra del gigantismo commerciale è in crisi. Mirafiori resterà un vuoto simulacro del passato? Come lo stabilimento di Grugliasco che ha visto i fasti del gran carrozziere Bertone, poi le lussuose speranze della Maserati portata da Sergio Marchionne. Il segretario della Cgil piemontese Giorgio Airaudo s’è appellato a Elon Musk perché ci porti la Tesla, rimasto senza risposte propone di aprire le porte a un costruttore cinese. La Byd apre uno stabilimento in Ungheria, davvero non c’è più nessuno che voglia andare a Torino?

Le catene della Sicilia 

Immobili, lunghe tenaglie giallastre in fila indiana calano dall’alto in un capannone deserto, spettri di un sogno industriale che si trasformò ben presto in un incubo. La fabbrica di Termini Imerese giace nel bel mezzo del golfo tra Palermo e Cefalù, addormentata secondo l’instancabile ottimismo di chi ancor oggi vorrebbe svegliarla, fredda e immobile come il monumento di un tempo perduto per sempre. Su quel nastro, tra le dita di acciaio ormai arrugginite pendeva l’ultima vettura, una Lancia Y, quando il 24 novembre 2011 Sergio Marchionne annunciò la chiusura dello stabilimento. Il manager ricorderà sempre con dispiacere quella decisione ormai senza alternative: l’impianto era uno zombie, assistito con denari pubblici e con i soldi della cassa integrazione pagata, va sempre ricordato, da tutti gli imprenditori, da tutti i lavoratori dipendenti e da tutti i contribuenti. Si parlò di riaprirla, ma ci volevano i soldi dello stato e certo non ce n’erano in quel mese fatale in cui cadde il governo di Silvio Berlusconi e l’Italia era sull’orlo del crac: per una settimana persino i bancomat sarebbero rimasti all’asciutto se non fosse intervenuta la Bce guidata da Mario Draghi. Così, tra progetti più o meno strampalati, ma sempre assistiti, e speranze deluse, i 1.500 dipendenti hanno tirato avanti, ne sono rimasti 560 e da ben dodici anni campicchiano con la cassa integrazione. Proprio come è accaduto all’Alitalia, la compagnia di bandiera diventata il paradigma dell’assistenzialismo di stato. Circa 200 operai potrebbero andare in pensione se il governo facesse pressione sull’Inps. Intanto, incubo su incubo, le buste paga vengono rosicchiate dai topi. Ma facciamo un balzo nel passato.
 

Si chiamava Sicilfiat e tutti giuravano che sarebbe stata la pietra di paragone della nuova èra, strumento di rinascita, anzi di riscatto. Era il 1962, ma ci sarebbero voluti anni solo per scegliere il sito dove far nascere la prima fabbrica di automobili nell’isola e in tutto il mezzogiorno. Quella stessa che adesso viene rimessa in discussione. Vittorio Valletta era rimasto sempre sospettoso, per lui  “il sud stava troppo lontano”. Nel nuovo clima riformista creato dall’apertura a sinistra, sostenuta dallo stesso Valletta, nasce anche Sicilfiat. Fin dal 1961, la Fiat prende una partecipazione nella Sofis, la Società finanziaria siciliana, come sbarramento preventivo. Lo scopo, infatti, è evitare che a un’azienda straniera venga in mente di insediarsi nell’isola per sfruttare gli incentivi pubblici e il basso costo della manodopera. Termini Imerese, un piccolo comune dalle nobili ascendenze (Thermai Himeraiai secondo Diodoro Siculo sarebbe stata fondata dai cartaginesi vicino a una fonte termale e popolato di coloni libici quattrocento anni prima di Cristo), non aveva nessuna vocazione industriale. L’ubicazione provoca uno psicodramma regionale. Negli archivi Fiat si trova una “nota per Valletta e Bono” nella quale un funzionario dell’azienda torinese riferisce dei colloqui avuti con il presidente del Consiglio regionale e il presidente dell’assemblea. Dopo ampi convenevoli, si arriva al dunque: “Sia l’uno sia l’altro dei miei interlocutori, pur pregandomi di tenere strettamente riservato quanto stavano per dirmi, data la natura delle rispettive cariche che impone loro un dovere di assoluta imparzialità, hanno tenuto a sottolineare particolari preferenze e suggerimenti, l’uno per la zona di Milazzo-Barcellona e l’altro per la zona di Messina”. La causa messinese è perorata da un illustre cittadino e importante figura politica: niente meno che Gaetano Martino, allora presidente dell’Assemblea parlamentare europea, già ministro degli Esteri, firmatario del Trattato di Roma che dava il là all’integrazione europea, ne parla direttamente con Valletta. Tutti sconsigliano, invece, la zona Catania-Siracusa dove “il grado di industrializzazione ha già raggiunto un livello tale da creare problemi non indifferenti”. Viene messo in cantiere anche un “piano lampo” per far approvare l’area di Carini, ma si arena tra Sant’Ambrogio e l’Immacolata Concezione del 1962. Due anni dopo, in aprile, la regione siciliana convoca i dirigenti locali della Fiat e chiede loro di preparare tutto per la solenne visita di Sua Eccellenza Antonio Segni: il presidente della Repubblica va portato sul luogo dove sorgerà la fabbrica e debbono esserci già chiari ed evidenti immagini di lavori in corso.
 

L’impianto di Termini Imerese entra in produzione solo nel 1970 e con un vizio di fondo: sforna un unico modello e tutte le componenti debbono arrivare dal continente. Prima la vecchia 500, poi la 126, la Panda e la Punto che, grazie al suo successo, porta gli addetti fino a 3.600. Intanto la Fiat aveva scelto altri siti per la sua discesa al sud: Cassino,  Termoli, Atessa, Grottaminarda, Pomigliano d’Arco dopo la presa dell’Alfa Romeo, Melfi. Investimenti massicci sostenuti dallo stato. Nel decennio 1988-1998, il bilancio pubblico ha contribuito per il 56 per cento degli investimenti complessivi sotto forma di contributi in conto capitale, finanziamenti agevolati, prestiti obbligazionari secondo i calcoli dell’economista Luca Germano. Non è possibile, invece, ottenere una cifra esatta di quanto è stato sborsato per la cassa integrazione, sia ordinaria sia straordinaria. L’allora amministratore delegato Paolo Fresco, durante un’indagine della Camera nel 2002, ha detto che nel decennio precedente la Fiat ha utilizzato 1,2 miliardi di euro, ma ne ha versati 1,3 tra tasse e contributi.
 

Brucia ancora lo scandalo Blutec. Nel 2015 Invitalia, l’agenzia del Tesoro, finanzia un’azienda dell’indotto auto, la Metec, che promette mari e monti a cominciare dallo sviluppo di auto ibride e persino elettriche allora ai primi passi. Non se ne fa niente. Quattro anni di chiacchiere, impicci e imbrogli che portano all’arresto di Roberto Ginatta e Cosimo Di Cursi, presidente e amministratore delegato accusati di malversazione ai danni dello stato. La guardia di finanza sequestra la fabbrica e 16 milioni di euro. Sul tavolo del ministero guidato da Adolfo Urso oggi ci sono due proposte: una viene dall’italo-australiano Ross Pelligra, già patron del Catania calcio, per una “riqualificazione immobiliare”, insomma case e palazzi al posto della fabbrica; l’altra è del Consorzio del sud e parla di “economia circolare”, insomma riciclo. È scomparso all’orizzonte lo svedese Lars Carlstrom che voleva aprire un impianto di batterie per auto, ed è sfumato anche l’ucraino Sergey Shapran, proprietario del gruppo Alumeta, il quale proponeva uno stabilimento per alluminio. Entrambi si sono volatilizzati quando hanno sentito che sindacati e partiti regionali volevano l’assunzione dei cassintegrati, nonostante fossero stati loro offerti 105 milioni di euro presi dal bilancio pubblico. Dal Mezzogiorno assistito al Mezzogiorno produttivo è davvero un lungo viaggio. Per capirlo bisogna risalire fino a Bagnoli

Alle porte dell'Averno

Quell’area sul mare dieci chilometri a nord di Napoli, un tempo nera di carbon coke, riscaldata da fuochi che richiamavano l’ingresso dell’Ade (il lago Averno dista pochi chilometri), è oggi un deserto di speranze. Fantasiosi progetti si sono rincorsi per tre decenni: un centro benessere che sfruttava il vulcanismo dell’area e riporta Bagnoli alle origini romane, quando si chiamava appunto Balneolis perché ospitava centri termali; un acquario, un’area concerti, una voliera per le farfalle, campi di calcio, tennis, basket. E piscine, massoterapia, parcheggi, un porto turistico, studi cinematografici e televisivi, case popolari, residenze vip, alberghi, archeologie industriali. Qualcuno ci ha scaricato sacchetti di spazzatura, quando Napoli non sapeva più dove metterli. Qualcun altro ipotizza trivellazioni per estrarre gas e calore dai vulcani flegrei.
 

A Bagnoli la prima fabbrica, una vetreria, risale al 1853. Nel 1910 s’inaugura l’Ilva con 2.000 operai, che lavora con il ciclo integrato: via mare arrivano le materie prime, e via mare viene spedito l’acciaio. La Grande guerra stressa al massimo la produzione e la crisi postbellica fa chiudere l’impianto fino al 1924. Tre anni dopo nasce un vero polo industriale: acciaio, cemento, amianto. Le bombe anglo-americane prima, i tedeschi in ritirata poi, radono tutto al suolo. È l’industria di stato nel dopoguerra a rinverdire i vecchi allori. Finché le due crisi petrolifere degli anni 70 rendono troppo costosa l’industria pesante. Nel 1981, il visconte belga Etienne D’Avignon partorisce un piano che prevede un drastico taglio della capacità produttiva in Europa e in Italia. L’allora ministro delle Partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis, annunciò che bisognava chiudere l’altoforno di Bagnoli. Al suo posto sarebbe nato un laminatoio. Costò 800 miliardi di lire ai contribuenti italiani, poi fu ceduto agli indiani per 30 miliardi. L’intera acciaieria verrà smontata e venduta a pezzi ai cinesi nel 1994. E comincia il balletto sulle ceneri di Bagnoli.
 

Nel 2002, il comune di Napoli aveva creato la Bagnolifutura spa, con la partecipazione minoritaria del comune e della provincia. Era il grande progetto di Rosa Russo Jervolino, sindaco di Napoli, e di Antonio Bassolino, presidente della regione. Fiore all’occhiello doveva essere la Città della scienza, ideata e organizzata da Vittorio Silvestrini, eminenza scientifica prima del Pci e poi dei suoi successori politici. La palestra dedicata alla fisica, il planetario, l’officina dei piccoli, le mostre temporanee, un museo, moderno e interattivo. Non si è vista la parte più creativa, quella legata all’incubatore di imprese innovative. Non ha fatto in tempo, si dice, perché sono sempre mancati i fondi che dipendevano in tutto e per tutto dai trasferimenti pubblici. La crisi del 2008, poi, ha dato un colpo di maglio alle grandi speranze. Il 27 luglio 2012 viene inaugurata la porta del Parco, ingresso alla struttura, splendida cattedrale nel nulla, una finzione scenica perché l’inaugurazione c’è già stata almeno un paio di volte, mentre i denari sono scomparsi. Non ci sono più i 65 milioni per portare avanti la bonifica. Il governo non ha la benché minima intenzione di investire, l’Unione Europea sta chiudendo i cordoni della borsa dopo essersi fatta illudere per anni dalle missioni partenopee partite dal comune e dalla regione Campania. I privati non sono mai arrivati. E la città della scienza?
 

Il 4 marzo 2013, nel giorno di chiusura al pubblico, un vasto incendio doloso distrugge quattro dei sei capannoni. Unico indagato è uno dei due custodi di turno, Paolo Cammarota, condannato nel 2016 in primo grado a sei anni di reclusione. Si salvano dalla distruzione il Centro congressi, l’Incubatore, il Teatro Galilei 104 gestito dalla cooperativa “Le Nuvole”, il capannone del ristorante e l’edificio che ospita alcuni uffici. Carlo Rubbia lancia un comitato di sostegno per la ricostruzione della Città della Scienza al quale aderiscono intellettuali tra cui Claudio Abbado, Renzo Piano, David Gross e alcuni fisici del Cern. Il 7 novembre 2013 il museo riapre in capannoni temporanei con la mostra Futuro Remoto, avente come tema il cervello, e con un’esposizione su cuccioli ed embrioni dei dinosauri proveniente dall’Australia. Il 14 agosto 2014 l’allora il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris firmano un accordo di programma per la ricostruzione sullo stesso sito dell’edificio distrutto. La Fondazione indice una gara di progettazione architettonica internazionale, vinta nel luglio 2015 dagli architetti Valerio Ciotola e Andrea Guazzieri all’interno di una compagine di otto imprese (capogruppo Stige & Partner), su un totale di 98 progetti ammessi. Ma l’iter si blocca perché entra in ballo Invitalia che fa arretrare il nuovo centro verso il monte, in un’area ancora da bonificare. C’è infine la costruzione di binari del treno interrati con una stazione che affaccia sul mare, sette chilometri di piste ciclabili e la realizzazione di una spiaggia pubblica lunga un paio di chilometri. Tempo di realizzazione per la metamorfosi, sette anni. Secondo l’accordo i lavori termineranno entro il 2024, cioè 32 anni dopo la chiusura di Bagnoli, 22 anni dopo Bagnolifutura, 11 anni dopo i tizzoni dello “science center”. E non c’è ancora nulla.

I forni dell’Ilva

A Taranto arrivano di nuovo anche i commissari, non mancavano che loro per ispezionare quel che resta del più grande centro siderurgico d’Europa. Per altre imprese è una eccezione, per l’Ilva è ormai la regola. L’azienda era entrata in amministrazione straordinaria nel 2015, ne era uscita faticosamente nel 2019 e ora purtroppo sembra ritornare in questo limbo. “Meglio far fallire Ilva, è questo l’interesse dei Mittal? –  si è chiesto Carlo Scarpa, professore di Economia a Brescia, la vera capitale dell’acciaio privato – Diciamo che l’amministrazione straordinaria è probabilmente necessaria per garantire i creditori, a partire da Snam, a cui Ilva non riesce a pagare il gas, fino agli autotrasportatori, che spesso sono imprese piccole che non possono accettare ulteriori ritardi nei pagamenti. Ma non può essere una soluzione per molto tempo”. Insomma, l’acciaieria tarantina sta diventando una nuova Alitalia. Da quando nel 2012 i magistrati hanno sospeso per la prima volta la gestione degli impianti (un anno dopo verranno estromessi i Riva), è tutta una catena di errori. Taranto produceva fino a 9 milioni di tonnellate, oggi sono ridotte a tre, è spento l’altoforno numero due e gli impianti restano sotto il sequestro giudiziario. L’acciaio cosiddetto primario, quello che non deriva dai rottami, ma fonde materiale ferroso e carbone, viene utilizzato per produzioni come la meccanica, l’automobile, gli elettrodomestici o nell’industria della difesa. La maggior parte dell’acciaio importato veniva dall’Ucraina e dalla Russia, due mercati che ormai sono preclusi. Restano la Cina che oggi sforna il 55 per cento dell’acciaio mondiale e l’India seguita dal Giappone.
 

In molti hanno bruciato quattrini e speranze nei forni dell’Ilva. Hanno pagato i Riva che l’avevano acquistata dallo stato nel 1995 e hanno investito sei miliardi di euro. Ha sprecato soldi anche ArcelorMittal, circa 1,8 miliardi, che oggi cerca di recuperare almeno in parte con il rifiuto all’aumento di capitale e con un disincaglio che passerà per vie giudiziarie. Hanno gettato nelle fiamme milioni di euro i magistrati che hanno sequestrato la liquidità aziendale. Hanno sperperato i politici i quali, anziché trovare una soluzione strategica, hanno cercato di prendere tempo. Ha sparpagliato tempo e denaro il movimento No Ilva, rumoroso e trasversale tanto da attrarre chi ha guidato la Puglia, voglioso di applausi e facili consensi: Raffaele Fitto, Nichi Vendola, Michele Emiliano. “La transizione dell’area a caldo dall’assetto tipico del processo siderurgico integrale a quello con forno elettrico è sicuramente possibile”, scrivevano in coro dal comune alla regione al governo Draghi, proponendo di produrre l’energia necessaria “con il rottame, che potrebbe arrivare anche dalle demolizioni degli stessi impianti dismessi”. Chiudere l’Ilva per sempre, di riffe o di raffe, era il pensiero dominante. E tutti a coltivare le cozze pelose come proponeva il Movimento cinque stelle. “È l’oro di Taranto”, arriva a scrivere Repubblica, levando un inno a quel mitilo chiamato modiola che tutto il mondo ci invidia.
 

Un’altra città della ruggine sul golfo più grande d’Italia. Mentre i tavoli di crisi aperti al ministero guidato da Adolfo Urso formano una vera geremiade dell’Italia industriale, dal call center Abramo in amministrazione controllata (quasi 500 lavoratori a rischio) alla Whirlpool di Fabriano, venduta alla turca Arçelik che annuncia tagli ai costi e ai posti di lavoro. La ferrugine come la si chiamava un tempo si deposita su un’Italia industriale che galleggia e non riesce a nuotare verso una nuova sponda, chiede aiuto, vuole altre ciambelle di salvataggio, abbarbicata com’è al vecchio che muore mentre il nuovo non nasce ancora.

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