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La crisi del Mar Rosso non è una buona scusa per fare marcia indietro sul pil 2024

Lorenzo Borga

Non siamo di fronte a una crisi di offerta né tanto meno di domanda, ma a maggiori frizioni nel commercio. Che hanno un costo, certo, ma non un impatto ciclopico. Le stime

Gennaio non è ancora terminato e il governo si sta già rimangiando la parola sulla crescita prevista per l’anno in corso. Un numerino, +1,2 per cento riporta la Nadef, da cui dipendono le ambizioni di rinnovo dei tagli fiscali per il 2025 e di riduzione del rapporto debito/pil. Il ministro Giorgetti ha messo in dubbio gli obiettivi per il 2024 per la prima volta al World Economic Forum di Davos, a specifica domanda dei giornalisti. “Difficile se scoppia una guerra al mese” ha detto in Svizzera, per poi ripetere il messaggio nei giorni successivi: il conflitto in medioriente e gli scontri nel Mar Rosso “mettono a rischio la crescita internazionale e quindi quella italiana”.

   

A dire il vero il conflitto israelo-palestinese è scoppiato ormai da quasi quattro mesi e sulla crisi del Mar Rosso l’incertezza è talmente fitta che nessuno può stimare con certezza l’impatto economico sul commercio globale. La maggior parte degli osservatori per ora concorda che l’effetto sia molto limitato. I prezzi odierni di petrolio e gas sono inferiori rispetto al 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas, e vicini – se non più bassi – alle quotazioni di metà dicembre, quando le prime navi iniziarono a deviare dallo stretto di Bab al-Mandab per dirigersi verso il Capo di Buona Speranza. Non siamo di fronte infatti a un blocco dei flussi commerciali – come avvenuto durante la pandemia – né a ritardi di mesi sulle consegne – come avvenuto subito dopo le riaperture. Ecco perché i costi di trasporto rimangono decisamente più bassi rispetto ai record del 2021. La rotta per circumnavigare il continente africano richiede tra i 10 e i 15 giorni di navigazione in più, al termine dei quali le merci vengono sbarcate nei porti europei. A fronte di costi di trasporto più alti, certo, ma senza un impatto ciclopico: le spese per movimentare via nave un container, secondo la Bce, rappresentano tra l’1 e il 3 per cento del prezzo finale. Se anche dovessero quindi raddoppiare, come è oggi il caso, l’impatto su consumatori e imprese rimarrebbe limitato. Per lo stesso motivo anche gli allarmi sulla perdita di competitività del 7 per cento di export italiano che passa dal canale di Suez appaiono a oggi esagerati. C’è chi ha provato a districarsi nell’incertezza per stimare l’effetto su inflazione e crescita europea. Goldman Sachs ha derubricato l’impatto come “modesto”, per al massimo 0,1 punti percentuali in più di inflazione in Eurozona. Allianz Trade è stata più pessimista: se la crisi dovesse continuare per un anno – un’ipotesi tutta da dimostrare – l’inflazione europea sarebbe spinta 7 decimali più in alto e la crescita subirebbe un rallentamento di 0,9 punti percentuali.

 

In Italia ha trovato molto spazio sui giornali una stima prodotta dall’ufficio studi di Confartigianato secondo cui l’Italia avrebbe perso in tre mesi quasi 9 miliardi di euro – cioè 100 milioni al giorno – tra mancate o ritardate importazioni ed esportazioni. Purtroppo il rapporto dell’associazione di categoria non spiega la metodologia applicata. Ma per arrivare a un risultato tanto clamoroso sarebbe necessario che un quarto dei flussi commerciali che attraversano il Mar Rosso da e per l’Italia venisse a mancare. Un’ipotesi lontana dalla realtà: le navi impiegano più giorni per compiere il viaggio, al più sbarcano le merci nel Nord Europa invece che nei porti italiani, ma con qualche ritardo arrivano nel nostro paese, non vengono a mancare. Non siamo di fronte a una crisi di offerta né tanto meno di domanda, ma a maggiori frizioni nel commercio. Che hanno un costo, certo, ma ben lontani oggi da rappresentare un quarto dei flussi commerciali.

 

Ecco perché a oggi non può essere la crisi del Mar Rosso la scusa del Governo per fare marcia indietro sul pil 2024. Non era ancora scoppiato il conflitto in medioriente quando l’esecutivo lo scorso settembre tirò fuori dal cilindro un obiettivo di crescita quasi doppio rispetto alle previsioni dei principali organismi italiani e internazionali. Una stima che si è allontanata ancor più dal consenso dopo le revisioni al ribasso di Ocse, Banca d’Italia, Fmi e Ref Ricerche. Tutte riduzioni di stime arrivate prima dell’inizio degli attacchi Houthi. Oggi il panel di organismi preso in considerazione dall’Upb prevede per l’Italia una crescita 2024 ferma allo 0,6 per cento, esattamente la metà di quanto spera il ministero dell’Economia. Non sufficiente a rinnovare taglio di Irpef e contributi, né a tenere su un sentiero di riduzione il debito pubblico come ci chiede chi ci presta i soldi.