Adolfo Urso e Giorgia Meloni (Ansa)

La lezione spagnola

Attrarre, non litigare. Cosa manca al governo quando parla di auto

Stefano Cingolani

La via maestra è aprire alla concorrenza, gli interessi nazionali non si fanno sbarrando i confini. Analisti e consulenti non escludono la possibilità che un gruppo tedesco venga a produrre in Italia, ma occorre giocarsi bene le proprie carte: mettere in campo incentivi e intervenire sui problemi del fisco e della burocrazia

L’Italia è davvero disposta a ospitare un secondo gruppo automobilistico, superando il monopolio Fiat passato a Stellantis? Ci sono candidati che non siano cinesi? E a quali condizioni verrebbero a produrre nel paese dove crescono i limoni, ma avvizziscono le grandi imprese? Sono queste le domande da porsi invece del consunto ping pong di accuse, recriminazioni, pregiudizi ideologici. Il duello con Carlos Tavares che copre lo scontro a tutto campo, politico, sociale, culturale tra Giorgia Meloni e John Elkann, non fa compiere un passo avanti. La strada non è costringere Stellantis a produrre in Italia e non in Marocco, in Serbia, in Polonia, scelta inutile e sbagliata. La memoria purtroppo dura lo spazio d’un mattino, eppure basta andare a Termini Imerese, a due passi da Palermo, per toccare con mano lo scheletro di un impianto sbagliato (bisognava importare dal continente tutte le componenti da assemblare in Sicilia), nato per ragioni politico clientelari contro l’ostilità di Vittorio Valletta, tenuto in piedi con i denari dei contribuenti. Ancor oggi 600 e passa lavoratori riscuotono la cassa integrazione, dodici anni dopo la chiusura. Non è quella la via maestra, ma aprire alla concorrenza. 

Il ministro Urso ha più volte accennato alla possibilità di attrarre altri produttori, però è rimasto nel vago forse perché la concorrenza non ha molti seguaci nella destra. La vicenda delle spiagge lo dimostra. Ma sbaglia anche Tavares con le sue minacce: "Se il governo vuole portare un altro produttore siamo pronti a lottare, tuttavia bisogna pensare anche alle conseguenze di questa lotta”. Sia lui sia Meloni dovrebbero imparare la lezione spagnola. Il paese, secondo in Europa con 1,8 milioni di vetture l’anno, ha in casa un grande produttore nazionale, la Seat che la Fiat ha ceduto alla Volkswagen quando aveva bisogno di quattrini da investire. Un errore e non il solo della gestione Romiti. Allora il governo guidato dal socialista Felipe Gonzalez aprì le porte ai tedeschi, ma anche ad altri costruttori, tra i quali la stessa Peugeot dimostrando che gli interessi nazionali non si fanno sbarrando i confini. La Volkswagen non ha certo applaudito, però non ha scatenato nessuna lotta dura senza paura, ha difeso il proprio primato investendo, rinnovando gli impianti, alzando il livello del prodotto, anche grazie a un manager italiano come Luca De Meo che ora guida la Renault, gruppo tra  i primi al mondo, più forte di Stellantis. La Seat sta per lasciare il posto alla sua nuova creatura, la Cupra che fa vetture sportive e di più alta gamma. 

Ma torniamo alla domanda iniziale: c’è un altro produttore automobilistico disposto a venire in Italia? Potrebbe essere un gruppo cinese. Byd che contende alla Tesla il primato mondiale nelle auto elettriche, ha deciso di sbarcare in Ungheria dove lavorano già Mercedes, Audi, Suzuki e dal prossimo anno anche BMW. Great Wall Motors è interessato, ma cerca solo partner per vendere le proprie vetture costruite in Asia. In ogni caso non vediamo Meloni aprire alle auto elettriche, tanto meno cinesi. Quanto a Elon Musk ha annunciato che la nuova Tesla rivolta a un pubblico di massa, la Model 2 da 25 mila euro, uscirà dalla gigafactory che sorge non lontano da Berlino nel Brandeburgo. Eppure, analisti e consulenti che abbiamo ascoltato non hanno escluso la possibilità che un gruppo tedesco venga a produrre in Italia. L’esperienza della Motor Valley emiliana (e della Lamborghini che appartiene al gruppo Volkswagen-Porsche) è molto positiva. Certo, si tratta di una nicchia di lusso, l’auto di massa richiede altre condizioni. E proprio questo è il punto. Tra le condizioni ci sono gli incentivi pubblici, ovviamente, che non mancano certo né in Germania né in Francia o nei paesi dell’est europeo. I salari italiani sono più alti che in Slovacchia dove la Volkswagen ha la Skoda, ma comunque inferiori a quelli tedeschi. Ora che la Germania è impegnata a riportare a casa pezzi importanti della catena produttiva, l’Italia può giocarsi le sue chance.

Tuttavia, gli stessi analisti e consulenti storcono il naso quando sentono la parola Ilva di Taranto. Diffidano anche dell’uso tanto esteso del golden power perché può diventare un cappio che il potere politico potrebbe stringere o allentare a seconda dei suoi interessi immediati. Poi c’è la solita giaculatoria: incertezza, burocrazia, gap tecnologico, mancanza di personale qualificato (un fattore nuovo che può diventare micidiale), fisco pesante e farraginoso, per non parlare di corruzione e malavita organizzata. Anche volendo far la tara ai pregiudizi, sono obiezioni che meritano risposte concrete. 

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