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suicidi rituali

La resa dei conti di Ilva ha una data (6/12) e una certezza: il flop del governo è a un passo

Oscar Giannino

Dopo il flop della settimana scorsa, domani è stata riconvocata l'assemblea della società che gestisce l'impianto di Taranto. Una partita che si gioca tra Roma e Bruxelles, mentre Mittal è sempre più vicina all'addio (non solo in Italia). Ecco cosa aspettarsi 

Domani, all’assemblea riconvocata della società che gestisce l’ex Ilva dopo il flop di quella di martedì della settimana scorsa, che cosa bisogna aspettarsi? Tutte le parti in causa – chi per il ministro Fitto segue la vicenda, come al Mef, come Mittal –  tengono ovviamente la bocca chiusa. Bisogna dunque usare la logica. Una logica che passa non solo da Roma, ma anche da Bruxelles. Il primo indizio è che allo stato non risulta scalfita la posizione del Mef. I 680 milioni pubblici impegnati per l’ex Ilva mesi fa non possono in alcun modo essere utilizzati per coprire l’esigenza straordinaria di cassa per pagare i fornitori, nella società la posizione dei Invitalia pubblica è minoritaria e non può assumersi se non per quota parte la copertura di costi di gestione, mentre al Mef sostengono che dal 2018 non sanno nulla di davvero preciso su conti della società, gestione, patrimonio e debiti.

Se la posizione del Mef resta questa, all’assemblea bisogna attendersi che giuridicamente venga dichiarato dal socio pubblico che qui 680 milioni sono davvero utilizzati per aprire un aumento di capitale immediato, e a quel punto la palla passa a Mittal che deve dichiarare se segue l’operazione, per quale quota, oppure no. Dopo tanti mesi di disimpegno di Mittal da Taranto, tutti si aspetterebbero il no. Ma un no secco di Mittal significherebbe una vera partente di fallimento agli occhi del mondo intero. D’altra parte, c’è chi dice però che quanto avvenuto il 23 novembre scorso a Bruxelles, il cambio di vertice alla testa di Eurofer cioè della federazione europea dei grandi acciaieri, cariche di cui Mittal si è disinteressata, conferma ben più di un disimpegno dall’ex Ilva, ma di quanto si sussurra già da mesi. E la questione è ancora Bruxelles.

La batteria di nuove regole emanate dalla Commissione Europea uscente significa per l’intero settore in Europa doversi preparare a una sfida impari. La Cbam, la nuova border tax europea sull’import di acciaio e alluminio (il regime transitorio inizia da gennaio 2024 e va a pieno regime da fine 2025), solo in apparenza è una misura protezionistica per l’acciaio europeo. Colpisce duramente il 20 per cento della produzione di acciaio europea esportata extra Ue, si ripercuote su tutti coloro che importano acciaio dall’estero o anche solo componenti in di acciaio, non è affatto sostenuta dalla possibilità di vedersi sostituita da maggior domanda sul mercato domestico. L’aggravio dei costi di produzione europei, soprattutto per l’acciaio da ghisa, è composta dagli effetti di spiazzamento del Cbam nonché dalla disciplina Ets, e secondo le stime degli acciaieri può essere calcolata entro un paio d’anni sino a una soglia tra i 100 e i 200 milioni di euro di sovraccosto per milione di tonnellate prodotto in altoforno. Gli allarmi di Eurofer a Commissione e Parlamento Ue non hanno ottenuto attenzione paragonabile alla recente dilazione degli obiettivi di Euro7 per i veicoli leggeri e pesanti. L’effetto di tutto ciò è che Mittal starebbe considerando non solo l’addio all’ex Ilva, ma anche il ridimensionamento dei suoi primari impianti in UE, a Dunkerque e Gent. Per concentrarsi sulle due grandi aree in cui la domanda di acciaio è in continua ascesa: India in primis, altri paesi asiatici, e Usa. L’addio di Mittal, ci si fa notare, realisticamente comporterebbe per Taranto quattro cose.

La prima è che il socio pubblico, potrebbe a quel punto sì versare per la cassa un altro paio di centinaia di milioni e non oltre. Ma, seconda conseguenza, non si potrebbe fare a breve un’altra gara per chiedere a privati di subentrare. Non per mancanza di volontà – dal MEF ripetono che in ogni caso il fine dell’intervento dev’essere quella della cessione a privati, una volta evitato il disastro attuale. Ma perché nessun privato, neanche quelli della cordata italiana che si era aggregata intorno al gruppo Arvedi e CDP che fu sconfitta nel 2018, accetterebbe oggi di assumere impegni senza sapere nulla in concreto della condizione reale in cui versano gli impianti. Terza conseguenza, ciò significherebbe indicare come commissario o Ceo un manager che conosca bene quegli impianti e l’intero settore, e si sussurra che in quel manipolo molto ristretto di professionalità il governo abbia già fatto una cernita. Bisogna sperarlo: non è mestiere per manager di partito. Infine significherebbe la nota più amara: cioè prendere atto che il futuro dell’impianto è solo sul preridotto e forni elettrici e addio altoforni, non con uno ma forse due impianti di Dri. Riconoscendo una volta per tutte che gli occupati andrebbero ridotti di diverse migliaia di unità. Un conto molto amaro, visto che la manifattura italiana continuerà ad aver bisogno dell’acciaio primario da altoforno. Ci si torcono la budella, all’idea di come ridano cinesi e indiani e americani, di questi nostri suicidi rituali.
 

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