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l'analisi

I limiti della delega di Meloni e il bivio della Cisl sul salario minimo

Marco Leonardi

La proposta del governo non tiene conto delle difficoltà legate alla contrattazione collettiva. Se non ci saranno miglioramenti la sigla guidata da Sbarra dovrà decidere se rinnegare per la prima volta quest'esecutivo

Nella saga del salario minimo si è aggiunta un’ultima mossa del governo che ha riportato la vicenda alla casella di partenza. L’Italia è uno dei pochissimi paesi senza salario minimo per un incessante rifiuto delle parti sociali di discutere la questione per anni, ma in pochi mesi si sono avuti diversi rivolgimenti di fronte. Lasciando da parte le  puntate precedenti, in questa legislatura improvvisamente l’opposizione unita presenta una proposta per il salario minimo orario a 9 euro, il governo la rigetta e con l’aiuto del Cnel  presenta una legge delega per stabilire la rappresentanza dei sindacati di lavoratori e imprese ai fini di garantire un salario minimo contrattuale. Non quindi un minimo di legge ma un minimo stabilito dai contratti. Insomma, si torna al punto di partenza. 

 

Il governo ha capito che non fare niente non è un’opzione quando i lavoratori hanno perso quasi il 10 per cento del valore reale del proprio salario. Tuttavia la strada intrapresa è piena di difficoltà e non credo che porterà a nessun risultato tangibile, quindi il salario minimo potrà tornare a essere una proposta che però dovrà passare attraverso l’unica via che  lo legittima: la piattaforma elettorale nazionale.  Le difficoltà a fare una legge sulla rappresentanza sono dovute a come si è evoluta la contrattazione in Italia. Il numero di contratti collettivi nazionali  (Ccnl) ha raggiunto un livello altissimo. Un deterioramento che riflette il fatto che tutta la flessibilità salariale (differenze nord-sud e piccole-grandi imprese) è scaricata sui contratti nazionali in mancanza di quelli aziendali. Un’opzione per mettere un freno alla proliferazione dei Ccnl sarebbe quella di introdurre delle regole per stabilire chi può negoziare un contratto collettivo e rendere questo contratto valido erga omnes. Per il lato sindacale, nel 2014 è stato firmato l’Accordo interconfederale tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria in merito al testo unico sulla rappresentanza, ma senza conseguenze pratiche sulla contrattazione. Dal lato datoriale, esiste un identico bisogno di mettere ordine nelle varie sigle ma non c’è nessun accordo sui criteri da utilizzare perché le parti datoriali sicuramente rappresentative (Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, ecc.) sono in concorrenza tra di loro in alcuni settori. 

 

Una volta definito quali sono le organizzazioni rappresentative resterebbero comunque due problemi di difficile soluzione per poter estendere erga omnes i Ccnl. Il primo è che un’estensione del contratto rappresentativo rischierebbe comunque di essere in conflitto con l’art 39 della Costituzione che prevede che si possa dar forza di legge solo a contratti firmati da sindacati registrati (e nessuno, per ragioni storiche, lo è e accetta di esserlo). Il secondo è la definizione del perimetro entro il quale è valido il contratto. Secondo un’interpretazione del principio costituzionale per cui “l’organizzazione sindacale è libera”, ciascuna associazione può raggruppare datori di lavoro e lavoratori come vuole. Questo problema potrebbe essere risolto con un accordo tra le parti che autodefiniscano i rispettivi perimetri, ma   a oggi è del tutto improbabile vista la concorrenza tra le varie associazioni. Proprio in ragione di questo problema di definizione dei perimetri, è opinione comune che, in assenza di una modifica costituzionale, difficilmente potrà prevedersi un’estensione erga omnes dei Ccnl.

 

Ma la impossibilità di concludere qualcosa di positivo sull’estensione dei contratti migliori non deve pregiudicare l’introduzione del salario minimo. Le platee interessate sono ben distinte: un tema è migliorare le condizioni contrattuali della maggior parte possibile di lavoratori trovando un modo per eliminare per legge o di fatto (escludendoli da incentivi statali o regionali per esempio) i contratti che fanno concorrenza al ribasso e limitano il potere contrattuale dei sindacati, un altro tema è garantire un salario decente al 5 per cento dei lavoratori che svolgono i lavori più semplici e devono essere certi di essere pagati il giusto. Alla fine, anche se si facesse una legge (e la prima a essere contraria è proprio la Cisl), non esiste un modo altrettanto convincente per i lavoratori di vedere una cifra minima fissa cui hanno diritto. E’ per questo che in tutto il mondo i sindacati (all’inizio spesso scettici) non hanno potuto dire di no al salario minimo. Alla fine questa sarà un’ulteriore ragione per cui il campo sindacale sarà estremamente diviso in questa legislatura, ma se la legge delega della Meloni non avrà nessun effetto pratico, la Cisl sarà costretta a una scelta di campo che forse per una volta la porterà a essere contro il governo.

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