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l'intervista

La guerra in Israele riaccende le tensioni sui mercati dell'energia. Parla Clò

Maria Carla Sicilia

Gas e petrolio di nuovo sull'altalena. “Abbiamo abbandonato il dittatore russo per dipendere da paesi che oggi stanno sostenendo Hamas”, dice il direttore di Rivista Energia 

L’attacco di Hamas a Israele ha lasciato il segno anche sui mercati dell’energia. I prezzi di gas e petrolio in Europa lunedì hanno subito aumenti rispettivamente del 7 e del 5 per cento, tradendo il timore che le tensioni si allarghino a tutto il medio oriente e coinvolgano i principali paesi produttori. “Esattamente a 50 anni di distanza siamo ancora con il fiato sospeso per l’ennesima guerra tra Israele e Palestina”, dice al Foglio Alberto Clò, direttore di Rivista Energia ed ex ministro dell’Industria. La coincidenza temporale non passa inosservata: la prima crisi petrolifera scoppia come conseguenza della guerra del Kippur, il 6 ottobre 1973, con l’embargo imposto dai produttori arabi verso gli Stati Uniti per il supporto militare dato a Israele. Anche oggi l’impatto di questo conflitto sui mercati energetici dipenderà molto dal ruolo che giocheranno i paesi arabi, dalla durata della guerra – che a differenza di quella del 1973 si prospetta più lunga – e dalla domanda di gas e petrolio legata all’andamento dell’economia globale. Le previsioni su quali implicazioni avremo sono difficili da fare, ragiona Clò, ma un’analisi della situazione attuale ci aiuta a capire quali sono i rischi.

Il primo aspetto a preoccupare è legato agli attori che ruotano intorno al conflitto. Uno dei timori è che gli Stati Uniti possano deliberare sanzioni più severe sul petrolio iraniano, il cui ministro degli Esteri ha sostenuto le azioni di Hamas come atto di autodifesa. Ma l’Iran non è il solo paese in questa posizione. Anche l’Algeria, il primo importatore di gas in Italia, ha dato il suo sostegno ad Hamas subito dopo l’attacco di sabato. Così come il Qatar, che dopo Australia e Stati Uniti è il terzo esportatore mondiale di gas naturale liquefatto (Gnl). C’è poi la delicata posizione dell’Arabia Saudita, che produce 11 milioni di barili al giorno di petrolio, il cui avvicinamento a Tel Aviv è citato da diversi osservatori internazionali tra le cause del conflitto. “Abbiamo abbandonato il dittatore russo per dipendere da paesi che oggi stanno sostenendo Hamas”, sintetizza Clò. Per trovare un po’ di stabilità bisogna guardare oltreoceano: “Dobbiamo ringraziare Stati uniti e Australia perché sono pronti a mettere in esercizio molti nuovi impianti di liquefazione e ad aumentare le esportazioni di Gnl. Peccato che mentre avviene ciò, le politiche dell’Unione europea che mirano a ridurre i consumi di fonti fossili continuano a frenare gli investimenti. La variabile da tenere d’occhio è la domanda: siamo sicuri che i consumi di gas e petrolio crolleranno, come dice l’Agenzia internazionale dell’energia? Questo rischio paventato, di fronte a una domanda che resta resiliente, fa sì che gli  importatori non si leghino a contratti di lungo termine, preferendo acquisti spot che espongono a prezzi più elevati”.

Di fronte a queste incognite, i mercati appena usciti dallo choc dell’invasione russa dell’Ucraina appaiono disorientati. “Rispetto alla crisi che abbiamo avuto dopo lo scoppio della guerra a Kyiv i prezzi di elettricità e gas oggi sono fortemente ridotti, ma si tratta di livelli almeno raddoppiati rispetto al periodo precedente al conflitto. La nuova normalità è basata su un equilibrio fragile, legato a una domanda bassa per l’andamento non soddisfacente dell’economia, soprattutto quella cinese”, dice il direttore di Rivista Energia. A questa fragilità ora si somma una nuova incertezza. “Per quanto riguarda il gas, il punto importante da tenere in considerazione è che Israele esporta gas verso l’Egitto, il quale, per un sostanziale equilibrio tra domanda, consumi e produzione a sua volta esporta Gnl verso il sud Europa. L’impatto a breve termine è ancora da capire, ma sui future di dicembre si è già registrato un aumento di circa il 10 per cento”, nota Clò. Il petrolio lunedì ha invece registrato un aumento di circa 4 dollari, arrivando a 88 dollari al barile. “E’ facile immaginare che i prezzi cominceranno a registrare un risk premium, perché  le tensioni coinvolgono paesi come Iran e Arabia Saudita, che producono rispettivamente 4 milioni e 11 milioni di barili al giorno”. I tagli recentemente annunciati da Riad e Mosca avevano già creato tensione sul lato dell’offerta, ma l’andamento dei prezzi al momento non ne ha troppo risentito  per i timori di una recessione. “La situazione è grave – conclude il professore – tanto più perché rispetto al 1973 non possiamo ricorrere a nucleare e carbone per diversificare dal petrolio. Vi sono enormi margini di incertezza, l’evoluzione delle cose dipende soprattutto dalle implicazioni politiche dei paesi arabi e da cosa decideranno di fare nei confronti di Israele. Wait and see”.

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  • Maria Carla Sicilia
  • Nata a Cosenza nel 1988, vive a Roma da più di dieci anni. Ogni anno pensa che andrà via dalla città delle buche e del Colosseo, ma finora ha sempre trovato buoni motivi per restare. Uno di questi è il Foglio, dove ha iniziato a lavorare nel 2017. Oggi si occupa del coordinamento del Foglio.it.