Enrico Marchi, presidente di Finint, ha messo insieme la cordata di imprenditori che ha acquistato da Gedi sei quotidiani del nord est (Ansa) 

TANTI nuovi CAV.

Piccoli Berlusconi crescono, tra squadre di calcio e giornali

Stefano Cingolani

Nel tempo degli sceicchi, dei pacchiani e taroccati campionati sauditi, diversi imprenditori locali spendono per una squadra di provincia. Ma la crema dell’imprenditoria veneta (e non solo) si lancia anche in avventure editoriali. Una rassegna

L’accordo è fatto e il catalogo è questo. Sei quotidiani del Nord est che prima facevano parte del gruppo Gedi (Mattino di Padova, Nuova Venezia, Corriere delle Alpi, Tribuna di Treviso, Messaggero Veneto di Udine e Il Piccolo di Trieste) più due emittenti televisive locali (TUA di Vicenza e Telechiara di Verona) sono ormai sotto il controllo di una cordata di imprenditori dello stesso territorio: Enrico Marchi, presidente della Banca Finint, nonché di Save (aeroporti di Venezia e Treviso), ha messo insieme Alessandro Banzato (Acciaierie venete), Giampietro Benedetti (Danieli), Enrico Carraro (Carraro Group), Angelo Mandato (Bioman), famiglia Nalini (Carel Group), VideoMedia (Confindustria Vicenza), famiglia Canella (supermercati Alì), Federico De Stefani (Sit), Alberto Zanatta (Tecnica Group), famiglia Cattaruzza (Ocean Group), famiglia Samer (Samer Group).

   

Come, i giornali non sono con un piede nella fossa? Nell’èra dei social media che se ne fanno della carta stampata questi industriali?

  

Non siamo a Leporello, ma poco ci manca. Come, i giornali non sono con un piede nella fossa? Nell’era dei social media che se ne fanno della carta stampata questi industriali che producono acciaio, componenti per auto o magari vendono pasta sugli scaffali dei loro supermarket? Se si rileggono i nomi si trova la crema della imprenditoria veneta. Vogliono forse dei giocattoli perché il giornalismo è comunque divertente, talvolta scomodo, ma alla fin fine pur sempre un fiore all’occhiello. Pensano di trovare “una buona parola” per i loro affari, stampa amica se capita qualche guaio di qualsiasi genere. Dubbi, domande insinuanti, ma spesso fondate.

   

C’era un grande del vecchio capitalismo italiano che, chiacchierando con un grande del giornalismo italiano, ammetteva candidamente: ”Vede io sono un industriale e ho bisogno di favori dai politici, per restituirli il modo migliore è possedere un giornale”. Lo interrogava Piero Ottone che sarebbe diventato direttore del Corriere della Sera e l’uomo che parlava così, brusco, ma sincero, era Eugenio Cefis già braccio destro di Enrico Mattei e allora boss della Montedison dalla quale si dimise all’improvviso nel 1977 sorprendendo tutti, persino Enrico Cuccia il quale lo salutò dicendogli: “Non me l’aspettavo, credevo che lei avrebbe fatto il colpo di Stato”. Storie tra leggenda e realtà. Ma in fondo anche Giovanni Agnelli, il fondatore, non si preoccupava se La Stampa guadagnava o perdeva soldi, l’importante, così diceva, “è che ogni mattina alle sette sia sul tavolo del capo del governo”. Allora quel capo era Benito Mussolini. Il giornale per ungere le ruote come sosteneva Cefis o per dettare l’agenda come sperava Agnelli. Oggi è ancora così?

  

C’è un lato positivo in quel che sta accadendo oggi nella stampa. Che si voglia ancora mettere qualche euro nella informazione locale e anche più (testate come Il Piccolo, La Nuova Venezia, Il Mattino, hanno una storia gloriosa godendo spesso di rilievo nazionale) non è affatto male, non solo perché chi scrive si mantiene così. Trovare investitori privati vogliosi di rischiare in questa avventura dell’intelletto è salutare. Vedremo poi i risultati, tuttavia l’ideatore della intera operazione, Enrico Marchi, è un personaggio chiave negli snodi del potere  veneto (su di lui torneremo) e ha messo in piedi un parterre che conta. Inoltre un azionariato così diffuso favorisce l’indipendenza dell’informazione. Nel Veneto c’è un editore come Francesco Caltagirone che possiede il principale quotidiano, il Gazzettino, dunque evviva la concorrenza. 

  

E questi sono i giornali, da sempre comprati e venduti, anche se oggi più venduti dagli editori che comprati dai lettori. Tutto sommato nulla di nuovo sotto il sole. Lo stesso si può dire delle squadre di calcio, oggetti del desiderio per ricchi vecchi e nuovi. Nella Bell’Epoque erano i cavalli e si faceva a gara nel possedere scuderie e allevamenti delle migliori razze. Poi le auto da corsa con eminenti commendatori alla guida, le Mille Miglia era la gara preferita. Finché non è arrivato il calcio, spettacolo di massa per le masse, generatore di consenso e di dissenso. La Juve degli Agnelli, l’Inter dei Moratti, il Milan di Berlusconi, la Roma di Sensi, la Lazio di Cragnotti e Lotito, il Napoli di De Laurentiis, il Torino di Urbano Cairo e potremmo continuare. Tuttavia, nell’era dei fondi d’investimento, degli sceicchi, dei pacchiani e taroccati campionati sauditi, perché a un imprenditore locale viene in mente di buttare soldi in una squadra di provincia? Domanda senza risposta. Eppure ce ne sono parecchi, come Maurizio Stirpe, eminente industriale che produce componenti di plastica per le auto, a cominciare dai sedili, vicepresidente della Confindustria candidato in pectore l’anno prossimo per prendere la poltrona di Carlo Bonomi. Si è speso e spende (non poco) per la squadra della sua città: il Frosinone. Per il terzo anno in serie A, conti in ordine, stadio di proprietà intitolato a Benito Stirpe, padre di Maurizio e fondatore dell’azienda di famiglia, giocatori giovani e allenatori da calcio moderno, un modellino, magari fossero così tutti i club della prima divisione. Altro che fondo Elliott il quale piazza alle isola Cayman un miliarduccio guadagnato con il Milan prima di venderlo. Altro che Zhang Jindong il magnate cinese che possiede l’Inter. Ma altro, diciamolo pure, che la Juventus degli eredi Agnelli. 

  

Maurizio Stirpe nel 2020 (LaPresse)
   

Nato nel 1958 a Frosinone dove è cresciuto, Stirpe ha studiato economia alla Sapienza e avrebbe voluto insegnare nell’università romana, ma il richiamo della famiglia, della stirpe potremmo scrivere con facile gioco di parole, è troppo forte. Il padre aveva ben avviato l’azienda, chiamata Prima, il figlio la trasforma in una di quelle “multinazionali tascabili” che sono il vanto dell’Italia manifatturiera, acquisisce la Sole di Oderzo (Treviso), stipula contratti con Fiat, Volkswagen, i colossi dell’auto, ma anche degli elettrodomestici come Whirlpool e Philips, apre nuovi stabilimenti (oggi ne ha nove in varie parti d’Italia e quattro all’estero, in Germania, Polonia, Slovacchia e Brasile). Consolidatosi come imprenditore s’impegna in Confindustria prima nel Lazio poi in quella nazionale con Emma Marcegaglia, Vincenzo Boccia e ora Carlo Bonomi, occupandosi soprattutto delle relazioni industriali, quindi rapporti con i sindacati ai quali parla schietto come ai suoi calciatori. Cattolico, è per un patto sociale, “purché non al ribasso”. Appassionato fin da giovane di Tex Willer, colleziona anche dischi in vinile, quasi a costruire ponti tra passato e presente, tradizione e innovazione. La squadra di calcio l’ha ereditata, come l’azienda e ha trasformato entrambe. Il padre Benito e lo zio Roberto venivano chiamati dai tifosi del Frosinone “i fratelli dell’entusiasmo” e hanno portato la squadra dei “canarini” dalla serie D alla B. Nel 2003 Maurizio prende le redini, conquista per tre volte la serie A e sempre lotta per restarci. Il debutto quest’anno con Eusebio Di Francesco allenatore, è stato positivo: finora ha conquistato più punti della Roma e della Lazio. Ma il vero orgoglio per Stirpe è aver realizzato il nuovo stadio in augurato nel 2017, il terzo di una squadra dopo quello della Juventus e dell’Udinese. Non sappiamo se sarà lui il prossimo capo degli industriali, ma ha messo insieme senza dubbio un bel palmarès. Tra le eminenti famiglie di provincia legate alla squadra del cuore va ricordato il proprietario del Lecce, il professor avvocato Saverio Sticchi Damiani, con uno studio legale considerato dal Sole 24 Ore uno dei migliori d’Italia, ereditato dal padre Ernesto, una sede in centro a Roma, una a Lecce. E ancora Giampaolo Pozzo dell’Udinese, Antonio Percassi dell’Atalanta, Fabrizio Corsi dell’Empoli, l’elenco di imprenditori e patron del calcio s’allunga, un modello d’antan che resta radicato all’ombra dei campanili. Piccoli Berlusconi crescono? Si può dire lo stesso per l’informazione?

 

Lo smembramento della Gedi nell’Italia del centro-nord ha portato alla luce Alberto Leonardis il quale ha raccolto un bouquet di giornali: Il Tirreno di Livorno, la Gazzetta di Reggio Emilia, la Gazzetta di Modena, La Gazzetta di Carpi, La Nuova Ferrara, La Nuova Sardegna. Nato a L’Aquila 56 anni fa, “una lunga esperienza da deal maker”, così lo ha definito Sergio Luciano in una intervista per Economy, sostiene che i giornali locali siano “una specie di whatsapp ante litteram, dove la gente si parla, si confronta, litiga”. All’editoria arriva quasi per caso con il Corriere delle comunicazioni e la Dire, l’agenzia di stampa fondata nel 1988 da Antonio Tatò, capo ufficio stampa del Pci e segretario di Enrico Berlinguer, da anni in serie difficoltà. L’asta per il Centro di Pescara (poi rivenduto così come la Dire e il Corcom) è il primo contatto con la Gedi; da cosa nasce cosa, o meglio nasce la Sae (Sapere aude editori, un marchio un programma di saggezza). Dopo una luna di miele durata quasi un anno adesso Leonardis ristruttura, taglia concentra e subisce una catena di scioperi. C’è invece pace sindacale nel Riformista di Alfredo Romeo, direttore editoriale Matteo Renzi. Tra i due c’è sempre stato uno stretto legame, anche se vengono da generazioni diverse. Ex comunista napoletano, poi costruttore edile,  Romeo, chiamato “il re degli appalti”, è stato sottoposto per oltre cinque anni a “gogna mediatica e persecuzione giudiziaria”, come dicono i suoi avvocati. Indagato per concorso esterno alla camorra, incastrato nella inchiesta sulla Consip, la centrale d’acquisti del Tesoro, è stato assolto nel gennaio scorso perché “il fatto non sussiste”. Romeo possiede la nuova versione del Riformista dal 2019 quando l’ha rilevata dalla famiglia Angelucci. 

 

E’ durata molto meno, invece, la stella mediatica di Danilo Iervolino, che aveva acquistato tra squilli di tromba L’Espresso e la Salernitana dopo aver venduto Pegaso, l’università telematica al fondo americano Cvc per un miliardo di euro. Il padre Antonio, noto avvocato, è stato senatore per i centristi della CCD, il piccolo partito scaturito dalla implosione dell’universo cattolico popolare. Una sua zia, Rosa Russo, figlia di Angelo membro della Costituente e ministro democristiano, è stata a lungo parlamentare dc poi sindaco partenopeo per il centrosinistra. Ma Danilo ha il pallino degli affari e, dopo un viaggio giovanile negli States, scopre che si può studiare e prendere una laurea anche stando davanti a un computer. Pegaso raggiunge i centomila iscritti, ma è il lockdown a portarlo alle stelle, sembra l’uovo di Colombo, certo è un uovo d’oro per Iervolino che nel 2021 diventa Mister Miliardo (così lo chiama la rivista Forbes). Immancabile yacht, appartamento al Foro Romano, “sono sempre in cerca di stimoli”, dichiara. Dopo un anno si disamora del prestigioso settimanale lanciato da Eugenio Scalfari e vende il 49 per cento al suo amico Donato Ammaturo imprenditore nel campo dell’energia, partito da una piccola azienda artigiana ora proprietario della Ludoil, il quale a questo punto dovremmo aggiungere al catalogo di industriali entrati nella carta stampata. 

 

La nostra rassegna è cominciata con Enrico Marchi e non può che finire con lui per la sua molteplice proiezione a cavallo tra affari e politica, attività privata e concessioni pubbliche. “Ha trasformato l’economia del Nord est”, ha scritto a gennaio Forbes. Addirittura. Vive tra Conegliano e il Canal Grande. C’è già chi lo chiama Doge e lo vede sindaco di Venezia quando scadrà Luigi Brugnaro con il quale ha litigato di brutto. Nato a Sernaglia della Battaglia (Treviso) il 6 aprile 1956, è sposato con la veneziana Emanuela Seguso, da cui ha avuto quattro figli. I due più grandi, Margherita e Giovanni, sono operativi nel gruppo. La famiglia è un punto fermo della vita di Marchi che ha addirittura chiamato una delle sue amate barche Oikos, famiglia in greco. L’altra sua imbarcazione l’ha battezzata Galantuomo. Laureato in economia aziendale alla Bocconi di Milano, ha iniziato l’attività professionale nel 1980 fondando la Finanziaria Internazionale Holding che opera in tre aree di attività: servizi finanziari (gruppo Banca Finint), infrastrutture (Save dove è entrato nel 2000) e outsourcing di processi aziendali (Finint Bpo). Il gruppo gestisce circa 10 miliardi di euro, di cui circa 2,9 miliardi nel private banking, 3,5 miliardi nell’asset management e 3,6 miliardi nei crediti deteriorati. Occupa oggi circa 550 persone e 193 consulenti su 62 uffici territoriali. Non si sapeva del suo amore per l’editoria finché non ha messo insieme la cordata del Nord est. E in molti hanno cominciato a ragionare sul possibile impatto politico. Secondo l’Adige punta al dopo Zaia,  ammesso che l’attuale presidente non voglia un quarto mandato, ma i veronesi come sappiamo ce l’hanno da sempre con i veneziani e il quotidiano fa capo al gruppo editoriale altoatesino Ebner che controlla anche Dolomiten. Altri lo vedono come kingmaker l’anno prossimo per la presidenza della Confindustria. E’ un fatto che nella battaglia per i quotidiani locali della Gedi ha battuto Caltagirone oltre che Leonardis. Voci ricorrenti pensano che potrebbe puntare ad acquistare Repubblica se John Elkann decidesse di venderla. Molta carne al fuoco, anche troppa, ma succede così quando si è arrivati in cima. La pista più interessante riguarda il ricambio pressoché contemporaneo sia alla guida di Venezia sia alla presidenza della regione anche se solo nel 2025 e si parla di una proroga di un anno causa Olimpiadi. Non sembra probabile che Marchi scenda in campo di persona, è più coerente con la sua figura il ruolo di persuasore occulto, ispiratore, burattinaio che dir si voglia. Dopo la crisi delle grandi famiglie, i Marzotto o i Benetton, sono mancate figure di riferimento nella economia, nella società, nella politica di un Triveneto economicamente in eterno fermento, ma spesso chiuso in se stesso, ricco, importante e tuttavia periferico rispetto alla politica nazionale. Con la fine della Dc e la scomparsa di alcuni importanti leader veneti (si pensi a Mariano Rumor, Flaminio Piccoli o Toni Bisaglia), dopo i fasti dell’era democristiana siamo al “nanismo politico” come ha scritto Il Mattino di Padova. Chissà che Marchi e la sua cordata non preparino una sorpresa?

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