la versione dell'ex ministro

Così Gualtieri riscrive la storia del Superbonus per assolvere se stesso e il Pd

Luciano Capone

L’ex ministro dell'Economia descrive un mondo mai esistito in cui lui lottava strenuamente contro l'estensione del 110 per cento. Un'occasione mancata per un'autocritica nel partito di Schlein sulla folle stagione dei bonus edilizi

Spesso arriva un momento della vita adulta in cui ci si assume qualche responsabilità. Per Roberto Gualtieri quel momento non è ancora arrivato. Chiamato da Repubblica a commentare gli effetti dei bonus edilizi (Superbonus e Bonus facciate), uno dei principali artefici della più grande catastrofe per il bilancio pubblico, oltre 120 miliardi di euro spesi per rifare il 3-4% delle case, di cui 70 miliardi oltre le previsioni, si difende dicendo: “Se il Superbonus si fosse chiuso al 31 dicembre 2021 non ci sarebbe stato alcuno sforamento”. Che è un po’ dire: se mio nonno aveva le ruote era un carretto, come recita un detto romano che il sindaco della Capitale sicuramente conoscerà.

 

L’altra giustificazione addotta dall’allora ministro dell’Economia del governo Conte è che “le proroghe le hanno volute tutti”. La tesi di Gualtieri è che il Superbonus, con il suo sconto del 110% e la cessione illimitata del credito, ha avuto un grande impatto sul pil in una fase di profonda depressione economica durante il Covid, ma come “misura eccezionale” aveva dei “paletti”: una “scadenza”, che il governo Conte aveva fissato al 31 dicembre 2021, e “non si applicava alle seconde case”. Poi però, disgraziatamente, questi “paletti” sono saltati perché “alla fine il Parlamento varò una prima proroga al giugno del 2022”, e poi un’altra ancora, e infine “il Parlamento allargò anche il perimetro alle seconde case unifamiliari”.

 

L’ex ministro dell’Economia, erede di Quintino Sella, ricorda che si batté strenuamente per tenere fermi i paletti (“Su questo ci fu uno scontro perché ritenevo che la misura dovesse chiudersi a fine 2021”), ma poi “il Parlamento” li fece saltare tutti. Poi il governo Conte è caduto, lui è andato a fare il sindaco di Roma ed era quindi responsabilità di chi è venuto dopo salvaguardare il bilancio.

 

Il racconto di Gualtieri è quantomeno parziale e sicuramente interessato. Perché la prima proroga al giugno 2022 del Superbonus non fu opera del “Parlamento”. Certo, il Parlamento la votò, come capita per ogni legge. Ma la proroga del Superbonus era contenuta nella legge di Bilancio 2021 del governo Conte, l’ultima preparata dal ministro Gualtieri. E nelle cronache non si registrano, almeno pubblicamente, segni della sua battaglia per far terminare il Superbonus con la fine del 2021. Anzi. “Sulla proroga del Superbonus 110% sono favorevole e sono convinto che ci sarà”, disse l’allora ministro Gualtieri in audizione alle commissioni Bilancio di Camera e Senato illustrando la legge di Bilancio.

 

Un paletto, insomma, l’ha tolto proprio Gualtieri. E anche l’altro paletto non lo tolse genericamente “il Parlamento” ma nello specifico il Pd, ovvero il partito dell’allora ministro dell’Economia Gualtieri, con un emendamento di Martina Nardi, capogruppo dem in commissione Attività produttive, che estendeva il Superbonus alle seconde case. In pratica il governo Conte, con Gualtieri alla guida del Mef, aveva messo un tir chiamato Superbonus in discesa e senza freni: sostenere ora, come fa il sindaco di Roma, che toccava a chi è venuto dopo fermarlo è un’affermazione tanto tautologica quanto ipocrita.

 

Soprattutto perché, quando Mario Draghi e il ministro Daniele Franco tentavano di arginare la voragine dei bonus edilizi il Pd si batteva, con il ministro Dario Franceschini, per mantenere lo scellerato Bonus facciate che ha prodotto le frodi più grandi della storia della Repubblica per come fu disegnato dal governo Conte e, più specificamente, dal ministro Gualtieri. Né si ricordano prese di posizione del sindaco Gualtieri a sostegno del ministro Franco per bloccare il meccanismo infernale dei bonus edilizi. È quindi chiaro che il Superbonus fu una politica voluta dal M5s e dal premier Giuseppe Conte, ma il ruolo del ministro dell’Economia era proprio impedire che si verificasse ciò che è accaduto. Il Pd si è a lungo vantato di aver traghettato il M5s dal populismo al “progressismo” e invece la realtà è che il Pd ha seguìto il M5s nel vortice del populismo fiscale trascinandosi dietro il paese.

 

Al di là delle memorie di Gualtieri, il tema dovrebbe essere rilevante per il Pd di Elly Schlein che in queste settimane sta rivedendo criticamente il proprio passato al governo, dal Jobs Act alle spese militari. Sarebbe forse il caso di aprire una riflessione nel Pd sui danni prodotti dai bonus edilizi, che con i 120 miliardi spesi, pari a oltre 6 punti di pil, hanno rappresentato la priorità dei governi del Pd anche rispetto a scuola e sanità, solo per citare due temi a cui la sinistra dedica molti convegni. Sarebbe da valutare criticamente anche la cessione illimitata dei crediti fiscali che, oltre agli effetti nefasti sul bilancio, rappresenta un pericoloso precedente per chi un domani volesse introdurre una moneta fiscale per preparare l’uscita dall’euro (fino a qualche anno fa era un progetto concreto e non è detto che non tornerà a esserlo in futuro).

 

Insomma, Schlein dovrebbe aprire un dibattito sul progressismo edilizio che, con una vernice di greenwashing, è stato la più grande opera di redistribuzione dai poveri ai ricchi. Le conclusioni potrebbe tirarle l’attuale responsabile economico di Schlein, Antonio Misiani, che era il braccio destro di Gualtieri al Mef.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali