Edmund Phelps (foto Ansa)

Lo scaffale di Tria

Dove trovare lezioni utili sul salario minimo? In un libro di ventisei anni fa

Giovanni Tria

Il premio Nobel per l'Economia Edmund Phelps nel suo libro "Rewarding work" affrontava il tema ben prima che diventasse mainstream 

Nel 1997 Edmund Phelps, economista americano che ricevette il premio Nobel per l’Economia nel 2006, pubblicò un libro dal titolo Rewarding work (“Remunerare il lavoro”) che contraddiceva molto del mainstream sul tema. Il libro, che ebbe una nuova edizione con una nuova prefazione dell’autore nel 2007 (Harvard University Press), parlava di “lavoro povero” come si usa chiamare oggi il lavoro con salari molto bassi. Questo libro dimostra che il tema è in campo da molti anni ed è nato nelle società capitalistiche più avanzate. Esso dimostra anche che i “teorici” sono più avanti dei cosiddetti practitioners (come sono definiti i “pratici” nella letteratura anglosassone), cioè businessmen e politici. Interessante rileggerlo di fronte a un dibattito in cui il tema del salario minimo sembra riguardare l’esistenza di imprese sfruttatrici che potendo pagare salari più elevati, in base alla produttività dei loro salariati, approfittano del loro potere di mercato, si parla di mercato del lavoro, per pagare salari da fame. Da ciò muove la discussione di quale sia questo salario minimo che consentirebbe di impedire questo fenomeno di sfruttamento. Approccio che lascia inevasa la domanda: cosa fare se un’attività economica si regge in piedi solo se i salari sopportabili sono al di sotto di questo minimo? La risposta in automatico sarebbe che l’attività non deve partire o deve chiudere. Ma il tema del Rewarding Work, sollevato da Phelps, è tuttavia più ampio e parte dall’idea che il lavoro, e quindi la sua remunerazione, non è solo un mezzo per procurarsi da vivere ma è anche il modo in cui il cittadino realizza sé stesso, costruisce la sua autostima in quanto può avere indipendenza dall’aiuto di altri, avere una abitazione, mantenere una famiglia e soprattutto allontanarsi da altre fonti di reddito come la criminalità o da fughe nel degrado come la droga, cercare un miglioramento progressivo delle proprie condizioni. Si parla di una società che ambisce ad essere fondata sul libero mercato e sulla crescita degli individui. Tutto ciò non si realizza quando il salario dei lavoratori con la più bassa produttività non consente questa vita di lavoro dignitosa. “Remunerare il lavoro” non significa quindi assicurare la sussistenza dei poveri, quale è l’azione dei sussidi al di fuori del lavoro, come grosso modo era il reddito di cittadinanza nelle sue interpretazioni più lassiste, o di altre forme di aiuti ai bisognosi, ma significa in primo luogo “remunerare chi lavora” affinché decida di restare sul lavoro o cercare un lavoro. Questo è un fine sociale, inteso come di interesse per la società e l’economia nel suo complesso”.

“Rewarding work” significa riconoscere che il lavoro ha una “produttività privata”, che è quella che determina il salario che le imprese possono pagare, e una “produttività sociale” di cui beneficia la società. Di qui la proposta che lo stato integri il salario al di sotto di una soglia minima, salario che corrisponde al salario sopportabile dalle imprese in base alla produttività del lavoratore, con un “sussidio all’occupazione”, che consenta al lavoratore di avere un salario maggiore al lordo del sussidio e che rifletta la “produttività sociale” del lavoro. Non è questa la sede in cui approfondire i problemi “tecnici” che questo approccio comporta. Dal costo per il bilancio pubblico, a seconda di come tecnicamente si possa perseguire questa strada e dove quindi cercare le coperture, a come disegnare un sistema che impedisca truffe e anche abusi da parte delle imprese. Mi sembra che le diverse impostazioni che oggi concretamente si confrontano in Italia tra maggioranza e opposizione in parte riflettano lo scontro tra le tesi dei sussidi tipici del welfare state a fronte della tesi del “Rewarding work”. Se mi è permesso modificare un vecchio slogan socialista o marxista: chi non lavora non mangia, ma chi lavora deve mangiare.

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