Edmund Phelps

Perché l'Italia deve recuperare vitalità. La lezione del Nobel Phelps

Alberto Brambilla

La costrizione della libertà individuale, la perdita del sano brivido del viaggio verso l’ignoto, secondo l'economista, è alla radice del declino occidentale

Roma. Dopo avere consegnato la laurea honoris causa a Edmund Phelps il presidente dell’Università Luiss, Emma Marcegaglia, ha detto che il premio Nobel per l’Economia ha molto da insegnare all’Italia. Ha ragione. L’economista americano nel suo saggio best seller “Mass Flourishing” (verrà pubblicato in italiano quest’anno, a circa quattro anni dall’uscita) dice che dalla fine dell’Ottocento in Italia, come in Germania e in Francia, si è affermato un sistema di valori antitetico alla modernità, all’individualismo, inteso come voglia e libertà di intraprendere, di liberare le energie dello spirito innovatore degli individui.

 

Quel sistema va sotto la categoria del “corporativismo”. “L’essenza di questa dottrina – ha ricordato Phelps nel suo discorso dal titolo ‘Un popolo vitale: una necessità per una buona economia’– è che la società sia un organismo coordinato, e così le aziende sono prevenute dal fare ciò che potrebbe danneggiare lo stato e magari dovrebbero agire per il bene della società. Chi vuole essere innovatore può quindi essere considerato egoista e, a seconda del successo che ottiene, distruttivo e anti sociale”. La costrizione della libertà individuale, la perdita del sano brivido del viaggio verso l’ignoto, secondo Phelps è alla radice del declino occidentale. I sintomi manifesti possono essere bassi ritorni degli investimento, crescita infima dei salari e del reddito nazionale, sussidi e incentivi e livelli patologicamente elevati di debito pubblico. La causa più diretta di questi sintomi è il rallentamento della produttività, cominciato in America nel 1968 e poi diffuso in Italia, Francia, Germania, Regno Unito. La “causa sottesa” è la perdita di capacità di “innovazione endogena”, interna, di un sistema economico. “Il grave deficit di innovazione di un paese dopo l’altro in Europa occidentale e in nord America deriva non dall’assenza di opportunità di fare profitto, non da qualche omissione del settore pubblico (come ponti o strade che non sono state costruite), ma dal declino dei valori moderni che avevano diffuso il desiderio di innovare”.

 

I valori moderni sono quelli del XIX Secolo, in cui emergeva una società audace, in cui “ognuno sceglieva la sua strada, coglieva opportunità e le sfruttava”. “Per riconquistare quel dinamismo antico – dice Phelps – dobbiamo ritornare a quei valori della modernità e rifiutare quelli post-moderni”. Purtroppo, la direzione è quella contraria. Phelps si dice “scioccato” quando nei sondaggi i giovani americani dicono che vogliono rimanere vicino alla città natale, vicino ai loro amici, o addirittura vivere con i genitori. “Questo è il ritratto di un’America per me irriconoscibile. Certo non è quella nazione dipinta da Norman Rockwell o descritta da Willa Cather”. La vitalità dei moderni opposta all’apatia dei contemporanei. Quando un’economia perde la capacità di innovare si concede al declino, economico, sociale e morale. Secondo le ricerche di Phelps in paesi che soffrono di bassi livelli di innovazione l’insoddisfazione della popolazione lavorativa è più alta. E nei paesi Ocse con la migliore performance economica – misurata con la soddisfazione sul lavoro e popolazione attiva – tendono ad avere valori più positivi che negativi. Tra le tredici economie più avanzate d’Europa i paesi con bassi livelli di soddisfazione dei lavoratori finiscono in fondo alla classifica degli innovatori. La Francia è nona, la Spagna undicesima, mentre l’Italia tredicesima, ultima. Svizzera e Danimarca sono in alto in entrambe le classifiche. “L’Italia non andrà lontano finché non acquisirà tassi sufficienti di innovazione endogena – dice in conclusione Phelps parlando con la stampa – Certo può esserci una riduzione della disoccupazione. E poi? Sarà sempre nella stessa situazione stazionaria. Non è più più nel torrente d’innovazione che arriva da America, Francia, e Regno Unito in cui si inserì negli anni ’60. E’ fondamentale che l’Italia riguadagni la propensione a innovare come ha fatto fino a metà degli anni ’90 e poi l’ha persa”. Una lezione per ritrovare mordente.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.