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L'ANALISI

Con il Cnel in campo sul salario minimo Meloni disinnesca la mina politica delle opposizioni

Luciano Capone

Affidando il dossier a Brunetta la premier lo ha "depoliticizzato", trasformandolo in una questione tecnica. La mossa è molto abile e vantaggiosa per Palazzo Chigi. Ma c'è anche il rischio che a lungo termine non sia poi così utile

La proposta di Giorgia Meloni di affidare al Cnel la discussione sul “lavoro povero” e sul salario minimo è certamente un'abile mossa politica, che spiazza le opposizioni sia politiche sia sindacali. Innanzitutto, nell'aver convocato le forze politiche di minoranza a discutere della loro proposta sul salario minimo la premier può rivendicare – come ha fatto nella lettera affidata al Corriere della Sera – un metodo diverso: “Personalmente nei molti anni che ho passato all’opposizione non sono mai stata chiamata da un presidente del Consiglio per parlare di una proposta di legge presentata da Fratelli d’Italia”. Meloni ha capito sin dall'inizio che di fronte a una questione di fondamentale importanza come il lavoro povero, soprattutto in una fase di elevata inflazione, non poteva semplicemente ignorare la campagna politica che per la prima volta vedeva unite tutte le forze di opposizione. 

In secondo luogo, con questa mossa la premier ha deciso in qualche modo di “depoliticizzare” la campagna sul salario minimo, trasformandola da questione politica a questione tecnica: il Cnel avrà 60 giorni di tempo per elaborare una proposta per alzare i salari bassi, che non necessariamente sarà il “salario minimo legale”. Anzi. Tutto lascia presupporre che la proposta andrà in direzione opposta. Perché il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro (Cnel), che è composto da tutte le parti sociali (datori di lavoro, sindacati, terzo settore, esperti indipendenti) è tradizionalmente contrario al salario minimo legale. Basti considerare che fino a qualche anno fa, ne scrisse il Foglio il 12 dicembre 2019, era praticamente proibito parlare di salario minimo: nel Rapporto del Cnel sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva del 2019 venne censurata un'analisi sul salario minimo, scritta da due esperti come Claudio Lucifora e Andrea Garnero, su espressa richiesta dei sindacati. 

Più recentemente, il Cnel – con un voto all'unanimità di sindacati e datori di lavoro – ha depositato una memoria per l'audizione alla Camera che, in sostanza, seppure con un linguaggio diplomatico, boccia il salario minimo come soluzione del problema. Per giunta il nuovo presidente del Cnel, Renato Brunetta, prima da ministro della Pubblica amministrazione del governo Draghi e poi da accademico, si è sempre espresso contro il salario minimo. In un recente paper dell'associazione Adapt sul tema, scritto insieme a un giuslavorista molto contrario al salario minimo come Michele Tiraboschi, Brunetta definisce il salario minimo una “inutile scorciatoia”: “I sostenitori del salario minimo legale vedono nella sua introduzione una comoda soluzione del problema che è però, a ben vedere, anche una scorciatoia perché non affronta il problema dei bassi salari dal lato della riforma fiscale e da quello della contrattazione di produttività”.

E' quindi molto probabile che, sul piano sostanziale, il Cnel elaborerà una proposta diversa dal salario minimo che sarà più simile alle proposte di estensione dei minimi contrattuali avanzate negli scorsi anni dal Pd (da Nannicini a Orlando).

La scelta di Meloni è azzeccata anche sul piano formale, visto che il Cnel è la sede costituzionalmente più adeguata a questa funzione (“Ha l’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge”, art. 99 Cost.). Per giunta, questa decisione di affidare a una Camera dei corpi intermedi la definizione delle norme sul lavoro rientra perfettamente nella visione neo-corporativa della destra di Fratelli d'Italia (tanto per sgomberare il campo da chi, a destra come a sinistra, vede in Meloni una nuova Thatcher). 

Sul piano politico, invece, i vantaggi per Meloni sono diversi. In primo luogo, toglie l'iniziativa politica a Giuseppe Conte ed Elly Schlein. Anche sul lato dei sindacati, indebolisce l'azione movimentista e politicista di Maurizio Landini: per la Cgil sarà difficile tirarsi indietro ora che il governo ha affidato proprio alle parti sociali che compongono il Cnel, quindi anche la Cgil, il compito di elaborare una proposta (il primo a lanciare pubblicamente l'idea di affidare il dossier sul salario minimo al Cnel è stato, il giorno prima dell'incontro governo-opposizioni, un grande vecchio della Cgil come Massimo Gibelli sull'Huffington Post). In sostanza, Meloni cerca di spostare Landini dalla protesta di piazza con le opposizioni al tavolo della proposta con le altre parti sociali. Di conseguenza, si rafforza la posizione di un sindacato come la Cisl che ha scelto sin dall'inizio il dialogo con il governo e stava soffrendo la campagna politica della Cgil sul salario minimo.

Naturalmente, per fare questa scelta Giorgia Meloni ha dovuto sacrificare il ministro del Lavoro Marina Elvira Calderone, che è stata di fatto esautorata per essersi dimostrata inadeguata nella gestione del dossier. La scelta di puntare sul Cnel e su Renato Brunetta ha un doppio vantaggio per Palazzo Chigi: da un lato l'ex ministro ha grande esperienza politica, conoscenze tecniche e volontà di tornare protagonista dando un ruolo al Cnel; dall'altro, se il Cnel non riuscirà ad elaborare in due mesi una proposta concreta il fallimento non sarà direttamente imputabile alla premier, ma alle stesse parti sociali che compongono il Consiglio. Se invece l’ostetrico Brunetta riuscirà a far partorire una proposta condivisa da tutte le parti sociali che compongono il Cnel, difficilmente il Parlamento - e quindi anche le opposizioni - potranno ignorarla.

L’abile mossa politica di Meloni sarà sicuramente utile nel breve termine, per recuperare un po’ di tempo allentando la pressione delle opposizioni, ma si rivelerà inutile se il governo non riuscirà a dare una risposta concreta al lavoro povero, che resta un problema reale. 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali