(foto LaPresse)

Non solo la Bce

Le banche centrali cercano di domare l'inflazione per non finire come la Turchia

Stefano Cingolani

L’aumento dei prezzi è ormai radicato nell’economia mondiale e il caso dell’Argentina, sull’orlo di un nuovo crac, preoccupa i banchieri. Ma le variabili sono molte e rispondere non è facile

Ha ragione Joachim Nagel, presidente della Bundesbank: l’inflazione è un mostro ingordo. Ed è un mostro a molte teste, per questo tanto difficile da domare. Le banche centrali ci stanno provando, ma i risultati finora sono deludenti. Un mese fa la Banca d’Inghilterra ha ospitato a Edimburgo un “Festival degli errori” per discutere sulle lezioni impartite dai disastri finanziari del passato. Il prossimo anno forse bisognerà aggiungere anche lo sbaglio commesso nel 2022 che ha consentito all’inflazione di radicarsi nell’economia come una mala pianta. Non fu facile estirparla nemmeno nei primi anni ’80, allora la stretta monetaria partita dagli Stati Uniti fu ancor più forte (ma l’inflazione aveva raggiunto il 20 per cento) tuttavia seguirono due-tre anni di recessione prima che arrivasse il “boom reaganiano”.

 

L’aumento generalizzato dei prezzi provoca reazioni sempre eclatanti, talvolta persino isteriche, ma di tipo opposto. C’è la scuola tedesca, quella della cura da cavallo che oggi nemmeno la Germania, già a crescita zero, teme di seguire fino in fondo. C’è al contrario la scuola argentina, popolare in Brasile e in buona parte dell’America Latina, che ha conquistato anche la Turchia. Stampiamo moneta a più non posso, il denaro circola, il pil cresce (solo in termini nominali, ma son bazzecole da tecnocrati), i voti fioccano. Per Erdogan ha funzionato, era andata bene tempo fa anche a Juan Domingo Perón (in realtà fino alla morte di Evita) poi l’Argentina è caduta in un vortice senza fine. I prezzi al consumo adesso stanno salendo del 114 per cento, i tassi di interesse è anche inutile calcolarli, il peso si è svalutato del 50 per cento, il paese è sull’orlo di un nuovo crac e il Fondo monetario suona la sirena d’allarme. Peggio della Turchia dove il costo della vita cresce del 40 per cento “soltanto” e la lira è scesa del 26 per cento “appena”. Ha fatto molto meglio la Banca centrale russa guidata da Elvira Nabiullina la quale, scattate le potenti sanzioni occidentali, ha dato un colpo d’accetta portando i tassi al 20 per cento. L’inflazione è scesa al 2,5 per cento (obiettivo delle banche centrali occidentali) tuttavia il rublo è ancor sotto del 35 per cento rispetto a un anno fa. Se poi volessimo affrontare il mistero cinese la perderemmo noi la testa: come fa a dichiarare che l’inflazione è vicina a zero con debiti spaventosi nascosti nei bilanci delle banche e dei bilanci locali? Meraviglie dell’economia socialista di mercato.

 

L’inflazione con la quale ci arrabattiamo in occidente è nello stesso tempo esogena ed endogena (così evitiamo fraintendimenti lessicali e brutte figure). Esogena perché la prima frustrata è arrivata dal balzo delle materie prime dopo l’uscita dalla pandemia, seguito poi dallo choc energetico post-invasione dell’Ucraina. Endogena perché alimentata dalla domanda e in alcuni casi da una rincorsa dei redditi per proteggersi dall’erosione del potere d’acquisto, più rapida negli Stati Uniti e nel Regno Unito (con l’8,7 per cento i britannici hanno il record in Europa) dove il mercato è meno ingessato. In Italia occorre guardare a come sale la tazzina da caffè che qui è un indicatore migliore del mitico Big Mac americano. Un dibattito senza fine si è aperto sull’impotenza delle banche centrali le quali prima non hanno capito poi hanno reagito in eccesso (la Bce ha alzato i tassi, che erano negativi, di 400 punti base in un anno). Il guru Stephen King del colosso bancario Hsbc sostiene che hanno sovrastimato la loro capacità di modificare le aspettative manovrando i tassi d’interesse. Regole fisse come l’obiettivo del 2 per cento funzionano solo in situazioni normali, in tutte le altre, cioè quando ce n’è davvero bisogno, il pilota automatico non serve.

 

Il Financial Times ha aperto una riflessione molto critica e dal dibattito cominciano a emergere alcuni fattori strutturali che non fanno parte dei modelli tradizionali. Uno di essi è la de-globalizzazione che riduce l’efficienza e provoca due conseguenze già visibili: la prima è l’aumento dei costi per produrre le stesse merci dove i salari sono più elevati e le materie base più lontane e care; la seconda è l’aumento dell’occupazione e dei salari nei settori che “rimpatriano” (negli Usa è molto evidente). Tradizionalmente il rincaro del denaro riduce la domanda, quindi meno crescita e più disoccupazione. Oggi non è più così a meno di non innescare un’altra pericolosa spirale tra tassi e prezzi. È lo spettro dell’Argentina, dunque, a tormentare i sonni dei banchieri centrali.

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