Inflazione da profitti? Il frutto di politiche monetarie accomodanti

Mariarosaria Marchesano

L'economista Ascari ci spiega perché è necessario che la Bce continui ad aumentare i tassi d’interesse e perché bollare la lotta all’inflazione come una “scelta pericolosa” come ha fatto Salvini abbia poco senso

“L’Europa è passata da un’inflazione da offerta a un’inflazione da profitti, ma è accaduto perché il forte aumento della domanda dopo la pandemia, sostenuto da politiche fiscali e monetarie molto accomodanti, ha spinto le imprese a trasferire a valle gli aumenti dei prezzi dei beni energetici provocando una riduzione dei salari reali. Non è il frutto di un improvviso e arbitrario comportamento degli imprenditori, ma di condizioni di mercato particolari che si sono venute a creare e che solo la continuazione della stretta monetaria può riequilibrare a favore dei salari”. Guido Ascari, economista dell’Università di Pavia e consulente economico della Banca centrale olandese, spiega al Foglio perché è necessario che la Bce continui ad aumentare i tassi d’interesse e perché bollare la lotta all’inflazione come una “scelta pericolosa” a danno a famiglie e imprese (è quello che ha detto il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ieri come risposta al discorso della presidente Christine Lagarde al forum di Sintra in cui anticipava futuri rialzi) abbia poco senso. Anzi, vale esattamente il contrario. “Restringere ulteriormente la politica monetaria in questo momento serve proprio per dare spazio ai salari di salire e ai profitti di scendere, cioè di tornare a un equilibrio nella spartizione della torta”, osserva Ascari. 


Quello che sta succedendo è che il fatto stesso che sia emersa un’inflazione da profitti, che però non vuol dire un aumento della reddività delle imprese come ha dimostrato una ricerca della Banca d’Italia (è una differenza di termini, ma anche di sostanza), ha rischiato di dare fiato a una narrativa anti capitalista in quanto le imprese sarebbero responsabili dell’impoverimento dei lavoratori. Insomma, è bastato poco per evocare la “greed inflation” (l’inflazione da avidità). Oggettivamente, i profitti nominali stanno incidendo in modo consistente sull’inflazione in Europa rendendola più ostinata del previsto – Lagarde dice due terzi a fronte di un terzo di periodi precedenti, ma il Fondo monetario internazionale stima il 45 per cento – e questo vale più per alcuni settori, come le costruzioni e il turismo, che sono stati fortemente sostenuti dalla domanda, che per altri.

 

“È però normale che questo accada, perché i prezzi sono una componente più flessibile dei salari – dice Ascari –. Le imprese adeguano rapidamente i prezzi quando subiscono i rincari delle materie prime, mentre i salari sono soggetti alla contrattazione collettiva che negli ultimi anni è andata un po’ a rilento in tutta Europa. Solo proseguendo l’inasprimento monetario vedremo una nuova fase in cui le imprese contrarranno i loro margini perché l’economia rallenterà, mentre le retribuzioni dei lavoratori tenderanno a crescere. Dobbiamo necessariamente entrare in questa fase, fermare gli aumenti dei tassi vorrebbe dire lasciare le cose così come sono o anche peggio”. 


Anche un recente paper del Fondo monetario internazionale, degli economisti Niels-Jacob H.Hansen, Fresweik G. Toscani, Jing Zhou,   mette in guardia contro un’interpretazione troppo semplicistica dell’aumento dei profitti come motore dell’inflazione. Il ragionamento che fanno è sostanzialmente il seguente: mentre i risultati mostrano che le imprese hanno superato lo choc dei costi nominali e se la sono cavata relativamente meglio dei lavoratori, i dati disponibili non indicano un aumento diffuso dei margini di profitto, cioè della redditività. Che cosa può succedere adesso? “Ora che i lavoratori stanno spingendo per aumenti salariali in modo da recuperare il potere d'acquisto perduto, le aziende potrebbero dover accettare una quota di profitto inferiore se l’inflazione vuole rimanere sulla buona strada per raggiungere l'obiettivo del 2 per cento della Banca centrale europea nel 2025”. Più nel dettaglio, ipotizzando una crescita dei salari nominali di circa il 4,5 per cento nel periodo 2023-24 e una produttività sostanzialmente invariata, sarà necessaria una normalizzazione della quota dei profitti fino al livello medio registrato nel periodo 2015-19 per raggiungere una convergenza dell’inflazione all’obiettivo nei prossimi due anni. Insomma, i profitti vanno compressi a vantaggio dei salari nei prossimi due anni, ma per farlo, come sostengono i tre ricercatori dell’Fmi, “la politica monetaria dovrà rimanere restrittiva per ancorare le aspettative e mantenere una domanda contenuta in modo tale che i lavoratori e le imprese si stabilizzino su un livello dei prezzi coerente con la disinflazione”. 


Al di là delle interpretazioni delle teorie economiche, viene da porsi una domanda e cioè se si poteva fare qualcosa per evitare l’impoverimento dei lavoratori. Su questo Ascari non ha dubbi: “Si poteva evitare se le politiche fiscali e monetarie fossero state meno accomodanti”. 
 

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