Foto Ansa

L'analisi

Profitti e salari, chi paga l'inflazione? Serve una nuova concertazione

Andrea Garnero

Le imprese stanno dimostrando di avere sufficiente potere di mercato per sapersi difendere dall’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, pur mantenendo costanti i margini di profitto. La Bce minaccia di alzare ancora i tassi, ma in assenza di coordinamento è una minaccia spuntata

Sul Foglio di mercoledì, Luciano Capone ha ripreso una recente nota di tre ricercatori di Banca d’Italia, Fabrizio Colonna, Roberto Torrini ed Eliana Viviano, che fornisce un contributo importante al dibattito sul ruolo dei profitti e dei salari nella dinamica dell’inflazione con una nitida spiegazione di come vadano interpretati i dati di contabilità nazionale sui profitti (cioè con cautela). La questione è tecnica ma il tema è sommamente politico: la nota ci dice che i dati che abbiamo visto circolare sui profitti in crescita in percentuale del valore aggiunto (più altrove che in Italia a dire la verità) non mostrano necessariamente un aumento dei margini di profitto. Anzi, sono compatibili, dal punto di vista teorico, con margini di profitto stabili o addirittura in discesa (perché con costi dell’energia e delle materie prime in crescita e margini costanti, il valore aggiunto cresce proporzionalmente meno aumentando il peso dei profitti sul totale).

Questa la teoria, ma la pratica? Dati in tempo quasi reale sui margini di profitto veri e propri sono disponibili solo in Germania e Italia (ancora una volta, un grazie all’Istat per la granularità di dati che pubblica) e mostrano margini di profitto in aumento solo nei settori delle costruzioni e della distribuzione in Germania. In Italia, invece, si stanno solo ora recuperando i livelli pre-Covid. Questione chiusa quindi? A mio avviso (del tutto personale) no. Anche dove i margini di profitto restano costanti, le imprese stanno dimostrando di avere (in media) sufficiente potere di mercato per sapersi difendere dall’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, scaricando su altri i costi. Lo possono fare grazie a una domanda che resta forte, alle caratteristiche di questa vampata inflazionistica che ha permesso di far accettare aumenti anche dove non erano strettamente necessari e a ragioni più strutturali, come un livello di concorrenza limitato in certi ambiti. Che i margini di profitto restino costanti nonostante (o grazie a) lo choc sui prezzi dell’energia e delle materie prime che abbiamo vissuto è di per sé un fatto sorprendente. Ed è ancora più notevole da un punto di vista di equità visto che nel frattempo i lavoratori hanno visto i salari reali crollare.

Quindi che fare? La Bce ha minacciato apertamente di continuare ad alzare i tassi se le imprese non “si danno una calmata”. Ma in assenza di un coordinamento, è una minaccia spuntata. Dove può, il singolo imprenditore continuerà a cercare di scaricare i rincari sui prezzi perché del “doman non v’è certezza”, senza preoccuparsi troppo di quello che pensa Francoforte. L’Autorità della concorrenza, il Parlamento e il governo dovrebbero chiedersi dove questo avviene e perché e se qualcosa si possa fare per aumentare il livello di concorrenza, anche solo aumentando le informazioni disponibili ai consumatori. In Israele, nel 2017 l’obbligo per i supermercati di pubblicare i prezzi online ha portato a un calo del 4-5 per cento dei prezzi. 

Infine, i dati sui margini di profitto suggeriscono che esiste uno spazio per garantire alcuni aumenti salariali senza generare ulteriore inflazione. Ma questo comporta una riduzione dei margini. E in un paese dalla produttività stagnante da oltre due decenni non è ovvio poterselo permettere. Perché questo succeda è necessario inquadrare la discussione su salari e profitti in una cornice più ampia, intorno a un tavolo in cui tutte le parti mettono qualcosa. Si tratta della vecchia concertazione che molti invocano ma nessuno pratica, perché significa per tutti perdere qualcosa. Ma per guadagnarci collettivamente.

Di più su questi argomenti: