La sede della Fed, a Washington (Chip Somodevilla / Getty Images)

Il disastro del carovita

Banchieri, dove siete? Questa inflazione è come un'alluvione

Stefano Cingolani

Gli esperti e i mercati hanno sottovalutato la geopolitica, la Bce si è mossa troppo tardi, e ora si teme che i prezzi possano non tornare indietro. Cosa aspettarsi dall’Italia del dopo Visco

Nel giardino del palazzo imperiale avanza il Cancelliere: “Udite dunque e mirate la fatidica carta / che ha tramutato ogni dolore in gioia: / Tanto sappia chiunque lo desideri / questo biglietto vale mille corone. / Gli sono pegno e garanzia sicura / innumerevoli ricchezze, sepolte nell’Impero”. 

L’Imperatore: “Mi par d’intendere una truffa enorme, un crimine… / Chi falsò qui la firma dell’imperatore?”. 

Il Tesoriere: “Ricordati! Tu stesso l’hai firmato”

L’Imperatore: “E vale oro di zecca, per il mio popolo?”

II Maggiordomo: “Fermare quei fogli è impossibile. / Si sono dispersi in un lampo”.

Mefistofele: “Borse e portamonete, un  fastidio sparito”

Faust: “Quella ricchezza innumerevole che dorme / sotto la terra dei tuoi regni, / a nulla giova laggiù…”

Mefistofele: “Carta che vale oro e perle come questa / è tanto comoda! Sai, almeno, quel che hai / Non serve più mercanteggiare o trafficare / Puoi come più ti piace ubriacarti d’amore e di vino / Vuoi moneta di zecca? Ecco la banca / E se non c’è, basta scavare un po’”.


Dopo tre decenni di calma piatta, l’inflazione è tornata a colpire: erode il tenore di vita, minaccia i consumi, affoga gli investimenti, spazza via i posti di lavoro, nemmeno fosse un’alluvione; il denaro si fa liquido al pari dell’acqua e come l’acqua inafferrabile. E’ tutto un chiedersi il perché, così cerchiamo nella letteratura risposte migliori che nella triste economia. Difficile pensare che Andrew Bailey, governatore della Banca d’Inghilterra, abbia ricordato il Faust di Goethe quando martedì scorso è stato messo sotto tiro alla Camera dei Comuni da Harriet Baldwin la presidente della commissione Tesoro, deputata dei Tory, per non aver capito che stava arrivando la peggiore ondata inflazionistica dagli anni 70 del secolo scorso. Quella carta da lui firmata, oggi vale meno e non serve alla felicità del popolo come promesso dai nuovi maghi, eredi di Mefistofele. Bailey, fedele civil servant che conosce tutto di banche e vigilanza, ma non è un professore, non ha reagito come il Cancelliere, ha ammesso l’errore. Huw Pill, capo economista della Old Lady (così chiamano la banca centrale), il quale ha studiato filosofia a Oxford, ha spiegato di aver analizzato attentamente i modelli che avevano funzionato bene negli anni 70 e 80, “ma oggi c’è qualcosa di nuovo da imparare”. Lo ha incalzato la Baldwin: “Erano modelli che andavano bene in un’altra fase storica”. E Pill con grande onestà intellettuale: “Eh già, da allora è cambiato il mercato del lavoro ed è molto diverso il regime in cui opera la politica monetaria”. Quando hanno cominciato a correre i prezzi degli alimentari si è guardato a quel che stava accadendo in Marocco, grande esportatore verso le isole britanniche dopo la Brexit. Poi c’è stata l’invasione russa dell’Ucraina e sono schizzati in alto i prezzi del gas e del petrolio. Ma adesso? I prezzi al consumo dall’inizio dell’anno sono scesi da +10 a +8,7 per cento, ancora poco se l’obiettivo è arrivare a +2 per cento. La Banca d’Inghilterra non è la sola ad aver sbagliato, lo ha fatto anche la Bce. Christine Lagarde ha atteso, ha esitato; più rapido è stato Jerome Powell, il presidente della Federal Reserve, ma anche lui è sotto accusa prima per aver sonnecchiato, poi per aver stretto troppo la cinghia aumentando i tassi d’interesse di cinque punti percentuali in quattordici mesi.

 

L’impotenza dei potenti

Ci hanno salvato dalla grande crisi finanziaria che, secondo i più rinomati profeti di sventura doveva affossare il capitalismo, l’occidente, la democrazia. Hanno tirato fuori l’euro dalle sabbie mobili nelle quali era caduto tra il 2010 e il 2012. Hanno stampato moneta per pagare i vaccini, gli ospedali, lo smart working e farci uscire piegati, ma non domi dalla pandemia. Adesso i banchieri centrali, già eroi dei nostri tempi, non sono in grado di esorcizzare l’antico spettro dell’inflazione che s’aggira di nuovo per il mondo. Solo un fantasma o una piaga? Chiediamolo a chi vede i propri risparmi perdere valore, a chi non riesce a riempire il carrello della spesa, a chi assiste impotente a una sorta di mercato parallelo dove si contratta in nero per compensare l’ascesa dei prezzi non pagando le tasse. Una frattura nell’ordine delle cose economiche che porta con sé la rovina di molti e il guadagno di pochi. Dallo scorso anno, la variazione dei prezzi ha fatto registrare in tutto il mondo un aumento pressoché continuo: dal 4,7 per cento nella media del 2021 fino a sfiorare il 10 per cento secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale. Nell’area dell’euro si è saliti dal 2,6 per cento dello scorso anno a oggi che si è quasi raggiunto l’11 per cento, sfiorando il 13 in Italia, il livello più alto da circa quarant’anni.

 

Questa corsa straordinaria è stata in gran parte imprevista. “Negli esercizi di proiezione condotti dagli esperti della Bce e dell’Eurosistema gli errori relativi alla crescita dei prezzi al consumo nell’area dell’euro sono stati, nel 2022, molto maggiori che in passato, su livelli doppi di quelli massimi compiuti in precedenza; per l’Italia gli errori sono stati di analoga entità”, ha riconosciuto Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. “E’ utile interrogarci sulle ragioni che spiegano le previsione sbagliate sull’andamento dei prezzi al consumo, molto elevati – ha aggiunto – si tratta infatti non di un semplice esercizio post mortem, ma di un elemento importante sia per una piena comprensione di quanto fatto finora, sia come guida per le decisioni di politica monetaria che si renderanno necessarie nei prossimi mesi”. Ma la sua analisi è meno tecnica o accidentale di quella offerta dagli economisti della Banca d’Inghilterra: “All’origine c’è una generale sottovalutazione, da parte degli esperti e, soprattutto, dei mercati (dalle cui quotazioni gli esperti derivano le ipotesi di base per le previsioni), dell’evoluzione della geopolitica. Lo scorso anno, in presenza di un recupero della domanda globale più rapido delle attese, l’insorgere di difficoltà di approvvigionamento ha ovunque sospinto i prezzi dei prodotti intermedi. Ma nell’area dell’euro ha soprattutto contato l’eccezionale rincaro dei prodotti energetici avviatosi alla fine dell’estate”.

 

La Bce si è mossa troppo tardi. Il rialzo dei tassi ufficiali è stato avviato quattro mesi dopo la Fed, quando si è visto che nell’area dell’euro l’inflazione aveva superato i valori toccati negli Stati Uniti. Adesso la polemica è del tutto opposta: a Francoforte prevale la linea dura e la Banca centrale sta esagerando. In primo luogo, presta eccessiva attenzione all’inflazione corrente, non tenendo conto che la politica monetaria esercita i suoi effetti sull’attività economica e sui prezzi con ampi ritardi. In secondo luogo, insistono i critici, sottovaluta la possibilità che l’inflazione si riduca più velocemente del previsto a seguito dell’indebolimento dell’attività economica. Ultimo, ma non per importanza, non considera le conseguenze di un irrigidimento sincronizzato delle politiche monetarie a livello globale, che non ha precedenti negli ultimi decenni.

 

C’è anche un’altra posizione della quale va tenuto conto: i banchieri centrali hanno le loro colpe non solo perché non riescono a frenare l’inflazione, ma perché l’hanno nutrita. E qui nel mirino entra anche Mario Draghi con la sua svolta di politica monetaria del 2012, giudicata eccessiva: i tassi d’interesse negativi non s’erano mai visti e sono di per sé un paradosso. A guidare il plotone dei critici c’è la Bundesbank che ha mandato avanti come sue truppe d’assalto la banca olandese e quella finlandese. E’ la tesi dei monetaristi che risale a Milton Friedman ed è stata rielaborata negli anni 80 da Thomas Sargent e Neil Wallace: esiste un rapporto diretto tra quantità di moneta e prezzi, ma non solo, “il controllo dell’autorità  monetaria sull’inflazione è molto limitato anche se il legame con la base monetaria resta stretto”, hanno scritto in un loro studio intitolato “Una qualche spiacevole aritmetica monetarista”. La Banca d’Italia non è monetarista, guarda semmai con maggiore attenzione all’ipotesi che ad alimentare la corsa dei prezzi sia la spesa pubblica, soprattutto se in deficit. La teoria fiscale dell’inflazione parte dal presupposto che tra la politica di bilancio decisa dai governi e quella monetaria delle banche centrali ci sia una relazione spesso sottovalutata. Anche il ministro francese delle finanze, Bruno Le Maire, si è convinto che “la stretta monetaria è inefficace se le finanze pubbliche continuano a espandersi”. Scendendo dalle altezze della teoria a quelle della pratica quotidiana, troviamo il dilemma di fronte al quale si trova l’Italia. Al netto della spesa per interessi il bilancio dello stato italiano non è affatto squilibrato, ma l’enorme debito pubblico ha un costo che peggiora con l’aumento dei tassi d’interesse: 74 miliardi quest’anno, 86 l’anno prossimo, una corsa verso i cento miliardi se i tassi non scendono. “Tagliate il debito”, hanno detto Paolo Gentiloni e Valdis Dombrovskis mercoledì scorso, il buon andamento del pil non basta, anche perché è in discesa nei prossimi mesi, ed è illusorio puntare sulla riduzione nominale del debito grazie alla svalutazione monetaria.

 

Una stagflazione secolare?

Secondo un influente economista come Charles Goodhart che ha lasciato un segno profondo nella Banca d’Inghilterra e nella London School of Economics, questa inflazione s’è ormai incistata e resterà per anni. “La pandemia ha segnato una linea di divisione tra la spinta al rialzo e le forze che negli ultimi 30-40 anni aveva contribuito a spingere in basso i prezzi”, cioè la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, la concorrenza salariale dei lavoratori asiatici, le politiche di austerità. Per Goodhart non contano solo la quantità di moneta e la spesa in deficit, c’è una componente strutturale che scava come una talpa: il declino demografico ormai esteso anche alla Cina. Meno forza lavoro disponibile porta con sé salari più alti i quali aumentano i costi di produzione e, quindi, i prezzi. Da molti anni un economista di diversa impostazione teorica, Larry Summers, ex segretario al Tesoro con Bill Clinton, ha rilanciato l’idea di una “stagnazione secolare” enunciata per la prima volta da Alvin Hansen negli anni 30 del secolo scorso. Da allora l’economia mondiale ha fatto un balzo gigantesco, ma ora sono all’opera spinte opposte, secondo Summers. E alla lenta crescita dovremmo anche aggiungere l’inflazione strutturale. Vivremo così in una palude, torna la stagflazione, parola di moda cinquant’anni fa? L’ascesa dei prezzi porta con sé distorsioni anche sul mercato dei capitali. E’ cominciata una corsa all’oro per difendersi dalla svalutazione della moneta cartacea, vi prendono parte le banche centrali alla ricerca di un rifugio sicuro. Le riserve auree della Banca d’Italia con 2.452 tonnellate dopo aver conferito 144 tonnellate alla Bce nel 1999 con la nascita dell’euro, sono al quarto posto in assoluto dopo Stati Uniti, Germania e Fondo monetario internazionale, prima del recente rialzo delle quotazioni valevano oltre 120 miliardi euro, cinque volte di più da quando c’è la moneta unica. Tuttavia anche il valore del metallo giallo oscilla con il mercato.

 

Le previsioni economiche assomigliano a quelle atmosferiche, quindi calma e gesso. Intanto si cominciano a calcolare gli effetti sociali dell’inflazione che provoca anche una redistribuzione della ricchezza. Non tutti perdono, alcuni guadagnano e non poco. I risparmiatori e i lavoratori a reddito fisso sono i più colpiti, ciò vuol dire la stragrande maggioranza della popolazione. Ma c’è anche chi può scaricare il costo sul prezzo finale. E’ la parabola della tazzina di caffè. Dopo il petrolio, il caffè è il bene più scambiato al mondo, il suo costo all’ingrosso è in grado di gonfiare partendo per così dire dal basso, l’intera bolla dei prezzi. Con la caratteristica che, quando il greggio scende, porta con sé anche il prezzo della benzina, sia pure con molto ritardo e non completamente, invece la tazzina è destinata a costare sempre di più. In Italia ha superato un euro e ora varia da 1,20 a 1,50 a seconda dei bar e delle aree geografiche, ma non scenderà più sotto quota uno, a prescindere da quel che accade sul mercato mondiale delle materie prime. I baristi se la prendono con il costo degli affitti e tutto il resto. Hanno molte ragioni, ma loro possono decidere il prezzo finale, salariati e pensionati che non hanno più la scala mobile no. Nel quarto trimestre dello scorso anno, l’Istat ha calcolato che l’andamento del reddito disponibile delle famiglie (+0,8 per cento), accompagnato da una crescita dei prezzi al consumo particolarmente forte, ha comportato una significativa diminuzione del potere d’acquisto (-3,7 per cento). Una tendenza che non è cambiata, in attesa di conoscere i dati più aggiornati. Non è andata ovunque allo stesso modo.

 

Americani ed europei

La differenza tra la natura e l’impatto dell’inflazione di qua e di là dall’Atlantico è notevole. Mentre in Europa prevale l’impulso dal lato dell’offerta (gas, materie prime, rottura della catena del valore) nell’America che ha raggiunto l’autosufficienza energetica l’embargo contro la Russia ha avuto effetti inferiori, è forte la pressione dal lato della domanda. Gli interventi attuati negli Stati Uniti per sostenere le famiglie e le imprese sono stati eccezionalmente elevati. In questi due anni il rapporto tra debito pubblico e pil è cresciuto di quasi 25 punti percentuali, arrivando al 130 per cento, a fronte di un aumento medio di 15 punti nei paesi dell’area dell’euro che ha toccato il 95 per cento. Il reddito disponibile delle famiglie statunitensi nel 2020 ha registrato il tasso di crescita più alto da quasi quarant’anni, con un aumento del 6,2 per cento in termini reali a fronte di un calo del pil del 3,4 per cento. Nell’area dell’euro, invece, il reddito disponibile delle famiglie è diminuito, sia pure di poco (0,6 per cento). C’è poi il mercato del lavoro. Negli Usa il tasso di disoccupazione è al 3,4 per cento, nell’area euro al 6,5 per cento. La crescita dei salari supera, su base annua, il 5 per cento negli Stati Uniti, un livello difficile da riconciliare con un obiettivo d’inflazione del 2 per cento; nell’Eurolandia le retribuzioni contrattuali crescono meno di tre punti percentuali.

 

Meglio l’inflazione o la disoccupazione? Una teoria molto in voga dagli anni 60 descrive la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione. Introdotta per la prima volta nel 1958 dall’economista neozelandese Alban W. Phillips, ha guidato le politiche macroeconomiche e giustificato le strette monetarie che frenano la crescita e riducono i posti di lavoro con l’obiettivo di soffocare la pressione sui costi e, quindi, sui prezzi. E’ quel che stanno facendo le banche centrali, è quel che ha sostenuto recentemente Madame Lagarde per giustificare la stretta monetaria: non ci sono altri strumenti che i tassi d’interesse, ha pontificato. Non tutti sono d’accordo che sia la giusta medicina, a cominciare dalla Banca d’Italia. Ignazio Visco è stato molto chiaro intervenendo al Warwick Economics Summit: “Non credo che una recessione sia inevitabile per ridurre l’inflazione”, ha detto. La curva di Phillips funziona ancora? L’esperienza americana mostra che nonostante un continuo, martellante incremento degli interessi, l’occupazione è aumentata, l’economia continua a generare più posti di lavoro di quanti ne distrugga, smentendo così anche l’opinione comune sull’impiego di nuove tecnologie. Quanto e come la quarta rivoluzione industriale ha trasformato i paradigmi dominanti della teoria economica? In attesa che nuove generazioni di premi Nobel ci diano una risposta, guardiamo in casa nostra.

 

Quando l’Italia vinse l’inflazione

Sembra quasi incredibile, ma il paese dipinto come l’Argentina d’Europa ha non poco da insegnare anche alla Germania che dopo cent’anni ancora soffre della sindrome di Weimar quando il costo della vita aumentava del 58 per cento al mese. Il successo più clamoroso si deve a Luigi Einaudi una volta che le sinistre, nel maggio del 1947, furono estromesse dal IV Gabinetto De Gasperi, con il sostegno americano, ricorda Pierluigi Ciocca nel suo ultimo libro (“La Banca d’Italia, una istituzione speciale”, Aragno editore): “Nei precedenti due anni le divergenze politiche interne alla maggioranza e ai governi avevano impedito il contenimento graduale e continuativo della massa monetaria che la teoria quantitativa suggeriva. Al tempo stesso non si riuscì ad attuare la politica fiscale rigorosa e redistributiva che le sinistre opponevano alla restrizione monetaria. Appena poté agire, la Banca d’Italia salvò la lira con una cura d’urto – un vero e proprio cambio di regime monetario – che nel volgere di poche settimane rovesciò le aspettative inflazionistiche e quindi la curva dei prezzi senza che la stretta monetaria provocasse cedimenti dell’attività economica e dell’occupazione. La stabilità così conquistata rappresentò la condizione senza la quale il miracolo economico non si sarebbe realizzato”. Non esiste oggi un Einaudi né a Roma né a Francoforte.

 

Un’operazione ben diversa, ma efficace, fu condotta dopo il crollo della lira nel 1992. Nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della crisi, si riteneva che la svalutazione sarebbe stata contenuta entro il 10 per cento in termini effettivi nominali invece arrivò al 30 per cento, ma l’inflazione, invece di aumentare, diminuì di oltre un punto. Come mai? Nel luglio di quell’anno fu sancita la fine della scala mobile e nel 1993 venne stipulata l’intesa conclusiva (l’accordo Ciampi) che stabilì, con la politica dei redditi fondata sulla “concertazione” tra le parti sociali, l’aggancio dei salari alla misura di inflazione programmata dal Tesoro. Nel frattempo, il governo guidato da Giuliano Amato varò una manovra senza precedenti pari al sei per cento del pil. Il saldo primario del bilancio pubblico (al netto cioè delle spese per gli interessi sul debito) divenne positivo per la prima volta in quasi trent’anni e restò tale fino alla pandemia, con l’unica eccezione del 2009. La Banca d’Italia dal maggio 1995 fissò un obiettivo esplicito d’inflazione da conseguire con i tassi di interesse manovrati in rapporto alla progressiva decelerazione dei prezzi al consumo. L’indice dei prezzi scese al di sotto del 4 per cento nel 1996 e nel novembre la lira rientrò nel Sistema monetario europeo preparandosi all’ingresso nell’euro insieme ai maggiori paesi. A quella politica monetaria si deve il rispetto delle tre condizioni previste per l’adesione: prezzi, tassi d’interesse, cambi. La quarta condizione, il taglio del disavanzo pubblico, venne realizzata dal ministro delle Finanze Vincenzo Visco nel 1997.

 

Il congedo del governatore

La prontezza e la determinazione di Einaudi, la collaborazione tra governo, Banca centrale e sindacati con Carlo Azeglio Ciampi, la chiarezza strategica di Antonio Fazio, furono fondamentali, ma determinante fu la convergenza tra governo della moneta, del bilancio pubblico e dei redditi. E’ questa lezione che Ignazio Visco ha tratto nel suo ultimo libro “Inflazione e politica monetaria” (Laterza) nel quale rilegge il dibattito teorico e analizza le scelte compiute e nei suoi più recenti interventi. Che cosa dirà mercoledì prossimo quando presenterà le sue ultime considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia che ha guidato con due mandati per ben 12 anni? “Anni difficili” come egli stesso li ha definiti (ha preso il timone nel 2011 quando l’Italia stava rischiando il default), che hanno rimesso in discussione molte idee consolidate. Adesso finisce anche quella stabilità che rappresenta l’alfa e l’omega per un banchiere centrale. In una sua lezione Ugo La Malfa il 16 novembre scorso, Visco ha riconosciuto che “il compito della banca centrale è particolarmente difficile”, senza snobbare orgogliosamente le critiche: “In un contesto tanto incerto credo sia utile tenerne conto. Ritengo tuttavia che la strada intrapresa sia quella necessaria”. Ma “rimarrà essenziale continuare a bilanciare il rischio che una ricalibratura troppo graduale (della politica monetaria, ndr.) favorisca un trincerarsi dell’inflazione, con il rischio di una stretta eccessiva che avrebbe significative ripercussioni per l’attività economica, la stabilità finanziaria e in ultima istanza nella negli sviluppi a medio termine dei prezzi”. E ha aggiunto, per non sottrarsi a un giudizio netto: “Eguale peso deve essere dato a entrambi i rischi. Sono preoccupato da prese di posizione che sembrano dare un peso troppo grande al rischio di fare troppo poco”. Ai falconi del nord fischieranno le orecchie. Più in generale, l’esperienza italiana dimostra che i tassi non sono l’unico strumento, quel che conta è il triangolo virtuoso che vede protagonisti la banca centrale, il governo, le forze sociali. Pensiamo che sarà questo il messaggio di congedo o meglio il testimone che passerà al suo successore. Sperando che non ci smentisca.