(foto Ansa)

A Taranto

L'Ilva esce dal Pnrr, l'unica soluzione è riaccendere l'Afo5

Annarita Digiorgio

Bene togliere dal Recovery Plan il progetto di un impianto di preridotto da sostituire al carbone, ma si sono persi tre anni. La struttura è già “ambientalizzata” e il problema della CO2 è irrilevante rispetto all’investimento necessario

Taranto. Da queste pagine siamo stati i primi, sin dal 2020, a dire che il progetto per la costruzione in Ilva di un impianto di preridotto (semilavorato siderurgico) da sostituire al carbone, andava stralciato dal Pnrr. E ieri finalmente è stato tolto. Lo ricordiamo non per prendercene i meriti, bensì per sottolineare che sono stati persi altri tre anni. Il Dri (preridotto), di cui si parlava da tempo, era finito nel Pnrr con un decreto legge sul finire del governo Draghi. Ma in realtà il premier ne sapeva poco e niente. Quando in conferenza stampa per il decreto Aiuti ter gli chiesero spiegazioni, Draghi risposa che non c’erano soldi per Ilva. Prese subito il microfono l’ex sottosegretario Roberto Garofoli (il fratello è il direttore del dipartimento Ambiente di Michele Emiliano in Puglia) e ammise che quei soldi c’erano: un miliardo del Pnrr per decarbonizzare Ilva. Una “fissa” di Emiliano, di cui non si sente la necessità.

 

Come ha ben spiegato il presidente di Federacciai Antonio Gozzi “Ilva è gia ambientalizzata” e il problema della CO2 è irrilevante rispetto all’investimento necessario. Come ha detto sin dall’inizio il presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè (l’unico che ha provato a mettere in trasparenza il dossier), di miliardi per decarbonizzare Ilva ne servono almeno 5. Ma il vero problema è quanti ne servono per alimentarla. Perché non lo sappiamo: Dri Italia, azienda totalmente pubblica controllata da Invitalia (nel 2022 ha perso 2,5 milioni), a nostra precisa richiesta ha negato accesso agli atti sullo studio di fattibilità (e non è una cosa normale, anzi, alla luce della sentenza Alitalia sulla cessione a Ita che ha stabilito non può essere secretato il contratto, ci permettiamo di suggerire che anche quello tra Acciaierie d’Italia e Invitalia con i relativi patti parasociali dovrebbe essere pubblico). Secondo il management di Dri Italia “lo studio di fattibilità è un documento soggetto ad accordo di riservatezza industriale ed è stato consegnato solo alle istituzioni centrali e locali competenti anche loro tenute alla discrezione e al rispetto del segreto industriale”.

 

Anche su questo l’unico a essere stato trasparente (nelle interviste, ma senza documenti) è stato Bernabè: l’idrogeno è futuribile, e costa 5 euro al chilo, quindi potrà coprire solo un 10 per cento del fabbisogno dell’impianto Dri, che invece andrà a gas naturale che costa un euro al chilo. E il gas Dri Italia lo prenderà da un rigassificatore che verrà istallato a Taranto (Emiliano lo sa?). Ma c’è un problema. Nella relazione sullo stato di attuazione del Pnrr pubblicata dal ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto il 31 maggio è scritto chiaramente che l’impianto Dri potrà essere alimentato “esclusivamente” a idrogeno verde. Quindi avremmo rischiato che la Commissione europea, scoperto che non c’è nessun idrogeno, ci togliesse il finanziamento. Oltre al fatto che oggettivamente non sarebbe mai stato completato entro il 2026. Secondo l’amministratore delegato di Dri Italia, Stefano Cao, è gia stato pubblicato il bando, che però non siamo riusciti a trovare su nessuna piattaforma pubblica. E anche su questo avevamo anticipato tre anni fa che sarebbe iniziata la guerra per l’aggiudicazione tra le aziende Danieli e Paul Wurt, le uniche che ora rimarranno all’asciutto (insieme alle istituzioni locali).

 

Ma c’è un altro motivo per cui è inutile quell’impianto, oltre al fatto che, come ha spiegato il prof. Carlo Mapelli, è ormai fuori tempo. Il preridotto dovrebbe servire per alimentare i forni elettrici. Che deve fare Acciaierie d’Italia. E che al momento non hanno né una linea di finanziamento, nè un cronoprogramma, né ragione di essere, avendo appena speso 400 milioni per la copertura dei parchi minerari. Bene ha fatto il ministro Fitto, nella riunione di due giorni fa con il ministro delle Imprese Adolfo Urso e l’azienda, a stralciarlo dal Pnrr. Ora si dirà che il progetto viene spostato su un altro fondo. Quello delle opere incompiute. L’unica cosa che realisticamente resta da fare per il siderurgico di Taranto è riaccendere immediatamente l’Afo5, con le migliori tecnologie disponibili. L’unica soluzione seria per far tornare a far essere quell’acciaieria, la più grande d’Europa. Come era quando quell’altoforno era acceso.

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