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da francoforte all'economia reale

Perché il rialzo dei tassi non rischia di fare male all'occupazione

Marco Leonardi

Oggi la stretta monetaria della Bce potrebbe avere un impatto meno grave sul mercato del lavoro rispetto a quello del 2019. Un fattore determinante è quello delle dimissioni in aumento

Nonostante lo scivolone in Borsa delle banche innescato dal fallimento di Svb, oggi probabilmente ci sarà l’annunciato ulteriore rialzo dei tassi di interesse di 50 punti base e i mercati prevedono ulteriori aumenti. Dallo scorso anno, la Bce ha alzato i tassi di interesse dal minimo storico di -0,50 per cento al 3 per cento. Nei mesi passati si erano levate mille voci per scongiurare l’aumento dei tassi di interesse con l’argomento (e la speranza) che finito il caro gas sarebbe finita anche l’inflazione. Questa speranza per ora purtroppo non si è attuata. L’inflazione core anche al netto dei beni alimentari e dell’energia continua a essere alta, al 6,4 per cento in febbraio. 

A preoccupare sono anche gli alti debiti pubblici e la spesa pubblica come fenomeni inflazionistici. Il decennio 2010-2020 è stato caratterizzato da bassa inflazione nonostante la politica monetaria espansiva per lunghi anni mentre la teoria monetaria dell’inflazione avrebbe prescritto un’inflazione alta, proporzionale alla moneta in circolazione. Invece l’inflazione si è materializzata solo dopo la pandemia quando le politiche fiscali sono diventate molto espansive. Alcuni economisti (soprattutto negli Stati Uniti) sostengono che la quantità di soldi immessi nell’economia attraverso i ristori e i sussidi della pandemia sia uno dei fattori che hanno causato l’inflazione. In particolare, l’inflazione è esplosa nel 2021 quando i governi hanno smesso di rassicurare i cittadini sulla tenuta dei conti pubblici e durante la pandemia hanno iniziato a spendere senza limiti. A questo punto la moneta si deprezza perché la gente capisce che prima o poi quel debito elevato non potrà essere ridotto se non attraverso l’inflazione. 

Assodato che non c’è molta alternativa ad alzare i tassi di interesse, c’è un altro tema che ci lascia qualche speranza in più. Quanto fa male un loro rialzo? A parità di rialzo dei tassi possiamo sperare che l’effetto sull’occupazione non sia troppo forte? L’effetto di un aumento dei tassi di interesse sull’inflazione e sul pil varia notevolmente da modello a modello, ma alla fine la stretta monetaria è inevitabilmente deflattiva. Il modello della Bce predice una riduzione dell’inflazione di circa un punto percentuale entro la fine dell’anno rispetto a uno scenario con tassi di interesse immutati. L’impatto sul pil reale è ancor più marcato, con una riduzione di circa 1,5 punti, che può arrivare fino a quasi 4 punti percentuali nello scenario peggiore. Questi numeri implicherebbero quasi certamente una lieve recessione nel 2023.

Fin qui le previsioni sul pil del modello della Bce, ma forse per quanto riguarda il mercato del lavoro c’è una speranza in più. Il meccanismo di trasmissione dai tassi di interesse all’occupazione è il seguente: per aprire un nuovo posto di lavoro (una vacancy) serve un investimento di denaro, questo investimento, come tutti gli altri tipi di investimento, è sensibile al tasso di interesse quindi più si alzano i tassi di interesse meno vacancy vengono aperte. La disoccupazione dipende dal numero di vacancy disponibili, quindi meno sono i posti di lavoro aperti e disponibili, più alta è la disoccupazione. 

Ma questo vale per i posti di lavoro creati ex novo, non necessariamente per quelli creati tempo fa e lasciati vacanti da lavoratori che si dimettono. Se il posto di lavoro è vacante per dimissioni del lavoratore non ha bisogno dello stesso investimento di un posto nuovo, è semplicemente una vacancy il cui investimento è già stato fatto in passato e quindi non sarà sensibile al tasso di interesse. È possibile fare anche qualche conto della serva senza pretese di verità, ma solo per illustrare l’idea.

Oggi siamo in un periodo in cui molti lavoratori si dimettono per cercare altre occupazioni: le dimissioni da contratti a tempo indeterminato nei primi nove mesi del 2022 sono maggiori del 30 per cento circa rispetto al periodo equivalente del 2019 (936 mila contro 736 mila). Assumendo che tutte queste 220 mila vacancy in più non siano sensibili al rialzo dei tassi di interesse, possiamo dire che la politica monetaria restrittiva farà meno male al mercato del lavoro di quanto non avrebbe potuto farne nel 2019. Ovviamente le cose sono molto più complicate di così e le variabili da considerare sono molte ma, come nel decennio scorso le regole dell’economia hanno funzionato in maniera particolare, anche oggi possiamo sperare che, di fronte a un’eventuale recessione, il rialzo dei tassi non abbia un effetto deleterio sui livelli e sui processi di aggiustamento dell’occupazione.

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