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l'analisi

Il problema del lavoro in Italia è che mancano salari alti e lavori di qualità

Marco Leonardi e Bruno Anastasia

Concentrarsi esclusivamente sul problema della retribuzione media oscura altri aspetti dell’occupazione. Se non paghiamo di più i lavori della conoscenza e del talento al pari dei nostri paesi vicini non avremo mai una crescita degli stipendi al loro livello

Ci sono almeno tre indizi che fanno una prova che la qualità del lavoro è diventata una variabile sempre più importante: la diffusione dello smart working e il fatto che molti non vogliano tornare indietro, le dimissioni alla ricerca di un lavoro migliore, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato che le aziende usano anche come mezzo per trattenere e incentivare i dipendenti.

La prima variabile che misura la qualità del lavoro è il salario. Il dibattito italiano recentemente ha trovato interesse al tema del salario in particolare a partire da un grafico elaborato ancora nella primavera 2022 da Openpolis e basato su dati Ocse circa la dinamica del salario medio annuo: questo tra il 1990 e il 2020 sarebbe diminuito in Italia del 2,9 per cento, mentre sarebbe cresciuto in tutti gli altri 37 paesi Ocse. A fare molta impressione – e a determinare lo straordinario successo mediatico del grafico di Openpolis – convergono due elementi: la variazione negativa del salario medio (ovviamente valutato a prezzi costanti, ci mancherebbe altro che fosse calato anche a valori nominali!) e la tristissima solitudine dell’Italia, unico paese in cui questa enormità sarebbe accaduta. Un dato così negativo e una retrocessione così solinga sembrano definitivi. 

In realtà vale la pena fare qualche considerazione più approfondita. La prima è che fortunatamente quel dato negativo e solitario dell’Italia dipende dagli anni presi in considerazione, se si evita il 2020 (anno della pandemia) i risultati sono di poco migliori ma almeno non siamo ultimi e abbiamo crescita positiva e non negativa. Magra consolazione certo, ma del resto non è un mistero che i salari seguano strettamente l’andamento del pil ed è ampiamente noto che l’Italia non è ancora ritornata ai livelli del pil antecedente al 2008 nonostante il recupero e la crescita di questi due ultimi anni post-pandemia. 

Attorno agli anni 90 del secolo scorso, i lavoratori dipendenti erano circa il 40 per cento della popolazione totale in età lavorativa mentre oggi non siamo lontani dal 50 per cento. Nella crescita di lungo periodo del lavoro dipendente un ruolo rilevante è stato svolto dalla diffusione di rapporti contrattuali part time, a tempo determinato e di lavoro stagionale (turismo); è inoltre aumentata anche la mobilità nel lavoro e quindi il numero di ingressi/uscite nella condizione di occupazione. Queste modalità di incremento del numero di dipendenti hanno compresso la dinamica del salario medio, allungando la coda sinistra della distribuzione (dove sono presenti giovani, immigrati, donne) e rallentando quindi la dinamica del salario medio e mediano. 

Per comprendere in concreto i limiti di un’esclusiva considerazione del salario medio meglio usare i dati Inps disponibili e accessibili per il periodo 2008-2021. Questo è il periodo più duro post-crisi del 2008 e poi del 2011-2012. Dividiamo i lavoratori a seconda dell’intensità di lavoro prestato a livello orario (full time o part time) o di continuità nel corso dell’anno (full year o part year): per i dipendenti full year e full time la variazione reale del salario medio tra il 2008 e il 2021 al netto dell’inflazione è stata del +6 per cento, per quelli full year e part time del 2 per cento; per i dipendenti part year, per i quali consideriamo la retribuzione media giornaliera per neutralizzare l’impatto delle diverse durate, la variazione è stata del +5 per cento per i full time e del -2 per cento per i part time. Per tre grandi gruppi quindi la variazione del salario medio (annuo o giornaliero) è risultata superiore all’inflazione. Nel contempo sono cambiate la dimensione e la composizione dell’occupazione dipendente: la dimensione, perché tra il 2008 e il 2021, nonostante la doppia recessione nel periodo 2008-2014 e la pandemia nel 2020, i dipendenti sono aumentati dell’8 per cento (da 14,8 a 16,2 milioni); la composizione perché tra il 2008 e il 2021 i full year e full time sono scesi dal 54 al 46 per cento del totale e quelli part year e  full time sono scesi dal 23 al 20 per cento; di converso i part time sono aumentati sia se full year (dal 12 al 16 per cento) che part year (dal 12 al 17 per cento).

Lo stesso fenomeno si può vedere chiaramente nei dati sulla diseguaglianza salariale (non la media ma la varianza). Se prendiamo i lavoratori a tempo pieno (full time, full year) la diseguaglianza salariale in Italia non aumenta dal 1992. Aumenta solo se consideriamo tutti i lavoratori: l’aumento della diseguaglianza, come l’andamento del salario medio, è dovuto alla frammentazione delle durate e non riguarda i lavoratori a tempo pieno. 
Ma una caratteristica altrettanto importante della crescita e distribuzione dei nostri salari si ha nel confronto internazionale. Con la Francia, non con la Germania che ha salari sempre e comunque maggiori dei nostri. Se confrontiamo il primo decile dei salari francesi dei lavoratori full time full year e perfino il lavoratore con un salario medio, le differenze con l’Italia sono minime. La differenza grossa si vede al novantesimo percentile: in Italia mancano i salari alti, mancano i lavori di qualità appunto. Oltre al problema delle ore lavorate (che spesso comunque sono una scelta del lavoratore, si veda il dibattito sulla settimana corta) noi abbiamo un problema molto poco dibattuto e molto rilevante: se non paghiamo di più i lavori della conoscenza e del talento al pari dei nostri paesi vicini non avremo mai una crescita dei salari al loro livello.

La pura focalizzazione sulla dinamica del salario medio dimentica la crescita occupazionale e occulta il fatto che la dinamica salariale è risultata positiva, superiore all’inflazione, anche nel periodo più critico successivo alla crisi del 2008. Occulta anche il fatto che l’Italia rimane indietro nel confronto internazionale non perché i salari dei lavoratori a tempo pieno sono troppo bassi ma perché mancano i salari alti e i lavori di qualità. Ciò non significa disconoscere le note ed esistenti criticità (in primis la diffusione di pratiche di sottoinquadramento, l’esistenza di contratti collettivi inadeguati eccetera): ma per identificare le soluzioni opportune per i problemi esistenti serve focalizzarli precisamente, non esasperarne la rappresentazione con numeri che, se lasciati parlare da soli, confondono il panorama piuttosto che illuminarlo.

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