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l'analisi

Quanto è urgente riordinare la babele degli incentivi alle imprese

Oscar Giannino

Per iniziare a coordinarsi nel labirinto di un codice comune serve risolvere quattro punti. Con un ultimo problema: la legge delega che dovrà occuparsi di trovare una soluzione deve essere accompagnata da una riforma fiscale 

Qualche numero, per capire da dove nasce il disegno di legge portato ieri in Consiglio dei ministri per la revisione degli incentivi alle imprese. L’ultimo censimento che allo stato è stato possibile realizzare dell’immensa congerie degli incentivi disposti in Italia risale alle norme in vigore a fine 2021 – quindi esclude tutta l’ulteriore batteria di misure relative alla tempesta e transizione energetica del 2022 e non solo quelle – ha individuato ben 1.982 agevolazioni esistenti, di cui 229 del governo e 1.753 delle regioni e autonomie, con 643 soggetti concedenti.

 

Nel 2021 il loro ammontare era di 146 miliardi, e la misura di quanto lo stato-mammella si sia espanso durante il Covid è la crescita del +483 per cento rispetto al 2019. Gli interventi sono esplosi, basti pensare agli oltre 200 miliardi di garanzia concessi fino a metà 2022 alle imprese attraverso il Fondo di garanzia pmi, con oltre 2 milioni di beneficiari. L’altissimo livello delle agevolazioni disposte dalle Autonomie non deve indurre in errore: nel 2021 l’ammontare degli incentivi nazionali è stato l’85 per cento totale. Questi dati fanno capire sinteticamente una cosa. La somma delle misure e dei concedenti è un problema per la finanza pubblica, poiché molte si sovrappongono senza alcun controllo sulla miglior allocazione delle risorse e la loro babele comporta maggiori oneri amministrativi e di compliance per accedervi da parte delle imprese, oltre a non secondari rischi di incorrere in contestazioni ex post da parte dell’Agenzia delle entrate.

 

Si capisce dunque che il governo punti a una legge delega volta come obiettivo a un laborioso codice comune di tutti gli incentivi alle imprese di qualunque genere. Ma, prima di arrivare entro fine legislatura, l’iter è a tre stadi: subito alcune norme di razionalizzazione autovigenti a legge approvata, entro due anni i decreti legislativi in attuazione della delega per individuare con definitiva chiarezza i criteri di razionalizzazione del successivo codice, nonché per fissare le basi per regole comuni trasversali a tutte le finalità, agli strumenti e alle procedure. Infine la terza fase, il codice vero e proprio. 

 

Le questioni sono immense. Nella lunga elencazione delle finalità orizzontali a cui devono rispondere gli incentivi ci sono princìpi generali molto apprezzabili – più efficacia e rapidità delle procedure, digitalizzazione massima, semplificazione e trasparenza dell’accesso al beneficio – ma anche cose sin qui ignote all’amministrazione pubblica. Come la valutazione ex ante di ogni tipo d’incentivo (magari!), e capacità di analisi anche per ogni singolo soggetto beneficiario a seconda del punto e delle condizioni in cui si trovi il suo ciclo d’impresa (questo solo punto ipotizza un’immensa attività ispettiva per ogni azienda, un Orwell mood che fa ridere pensando che lo stato sin qui non riesce neanche a sapere quanti benefici assistenziali sommi ogni cittadino).

 

Il ruolo di regista è affidato al Mit ex Mise, ma ovviamente l’elenco dei soggetti con cui coordinarsi comprende due terzi del governo, naturalmente l’Ue, e il non secondario problema di far digerire alle regioni – mentre il governo spinge per l’autonomia differenziata – il riaccentramento sottinteso all’omogeneizzazione di tutti i sostegni alle imprese. Dopodiché ci sono quattro punti di fondo irrisolti. Il primo è pensare ancora a regole uniformanti dei bandi per accedere agli incentivi: è matura da anni una riflessione molto più radicale. I bandi di stato – non solo quelli ridicolmente basati sulla fulmineità dei primi click digitali che dipendono solo dalla banda Ict a disposizione a seconda delle diverse aree di insediamento delle imprese – vanno il più possibile archiviati: servono accessi diretti e non discrezionali secondo griglie predefinite di beneficio. Il secondo punto è che scommettere sulla rapidità attuativa è commendevole, ma con centinaia di miliardi in ballo e di soggetti che li erogano, auguri. Era meglio un intervento meno enciclopedico è più definito. Il terzo problema è che anche questa volta il governo procede senza alcuna consultazione delle imprese. Si è appena visto col decreto-mannaia ai bonus edilizi (chi scrive è d’accordo) che un minimo di confronto riservato e preventivo sarebbe stato preferibile a dover giocare oggi a mosca cieca per risolvere incagli e cantieri bloccati.

 

Problema finale: questa delega doveva andare a braccetto con quella della riforma fiscale. Camminano insieme, visto che a parte le garanzie pubbliche sui prestiti alle imprese, tutto il resto passa per il fisco. A meno che il governo pensi a una delega fiscale senza fisco d’impresa e concentrata solo sull’Irpef. Nel qual caso l’errore raddoppia.        

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