Giorgia Meloni a Brussels durante l'ultimo Consiglio europeo (Ansa)

In vista del Consiglio europeo

Contro gli aiuti di stato può nascere un asse Meloni-Rutte

Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro

Il nostro paese si è sempre accodato alle richieste franco-tedesche per un minor rigore nell'attuazione della politica antitrust. Oggi che la possibilità di una concorrenza sleale preoccupa il governo, è ora di cercare nuove alleanze in Europa

Il governo italiano ha affermato nei giorni scorsi di essere preoccupato dall’allentamento delle regole europee sugli aiuti di stato che sarà all’ordine del giorno del prossimo Consiglio europeo del 9-10 febbraio. Secondo Palazzo Chigi, ciò potrebbe dar luogo a forme di concorrenza sleale da parte dei paesi con maggiore spazio fiscale, quali la Germania e la Francia. È una notizia buona e non scontata. È per noi anche una svolta epocale – una Zeitenwende, per dirla con un’espressione resa celebre dal Cancelliere Scholz dopo l’aggressione russa in Ucraina. Da diversi anni, infatti, il nostro paese (con il consenso pressoché unanime dei partiti) si era sempre accodato alle richieste, capitanate proprio da Parigi e Berlino (pour cause, come vedremo), per una politica industriale europea più “assertiva”, una maggiore libertà nel ricorso agli aiuti di stato e, più in generale, un minore rigore nell’attuazione della politica antitrust. Per esempio, nel 2020 (dopo la bocciatura da parte della Commissione della fusione Alstom-Siemens) assieme a Francia, Germania e Polonia chiedemmo di introdurre valutazioni di tipo strategico nelle decisioni sulla concorrenza per permettere la creazione di “campioni” in grado di competere con i colossi americani e cinesi.

 

Alla base di questo revirement c’è una nuova consapevolezza – numeri alla mano – che il nostro paese, se effettivamente si allentassero le regole europee sugli aiuti di stato, finirebbe per essere “come un vaso di terracotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”. I dati sugli aiuti erogati in questi anni parlano chiaro e non lasciano spazio a dubbi. Com’è noto, in risposta alla crisi pandemica, la Commissione europea ha introdotto il cosiddetto temporary framework, riducendo i vincoli all’erogazione di aiuti di stato per far fronte all’emergenza. Successivamente, questo meccanismo è stato riproposto per consentire di affrontare le conseguenze del caro-energia e della guerra in Ucraina. Secondo i dati preliminari, complessivamente a livello europeo sono stati autorizzati, per quest’ultimo quadro, ben 540 miliardi di euro di aiuti, di cui circa il 49 per cento in Germania (che ha un Pil circa doppio dell’Italia), il 30 per cento in Francia (con un Pil un po’ più di una volta e mezzo del nostro) e meno del 5 per cento in Italia. La sproporzione è evidente

 

L’interesse nazionale a mantenere una rigorosa applicazione della disciplina degli aiuti di stato è dunque chiaro, anche a prescindere da valutazioni di più ampio respiro sui significativi benefici arrecati al nostro paese dalla politica di concorrenza nel corso del tempo. Ricorrono proprio quest’anno i trent’anni dalla creazione del mercato interno, ed è pacifico che l’integrazione dei mercati europei, figlia in larga parte della politica di concorrenza e delle liberalizzazioni, ha fortemente avvantaggiato le imprese italiane. Il loro dinamismo internazionale è stato il principale elemento di traino del Pil in un contesto di stagnazione generalizzata della produttività imputabile principalmente ai settori cosiddetti non tradeable.

 

Tuttavia, per l’Italia è più difficile opporsi a questo ennesimo tentativo di attenuare il rigore delle regole sugli aiuti perché non sono solo i paesi che più ne trarrebbero beneficio a premere in tal senso, ma la stessa Commissione sembra favorevole a un parziale rilassamento della disciplina per contrastare la concorrenza sleale americana. Imprese e governi europei sono preoccupati dalle possibili conseguenze dell’Inflation Reduction Act – il pacchetto di sussidi varato dal Presidente Biden per finanziare la transizione verde a condizione che sia made in Usa. La Casa Bianca ha messo sul piatto circa 379 miliardi di dollari che potrebbero indurre molte imprese europee a trasferire gli impianti produttivi oltreoceano per consentire agli acquirenti finali di ottenere i crediti di imposta erogati dal governo americano. La Commissione, per parte sua, teme di perdere l’autonomia strategica per effetto del trasferimento di importanti imprese europee operanti in settori critici e restare indietro nel processo di transizione ecologica e digitale

 

È davvero così? È difficile dirlo. Innanzitutto, per quanto si parli di cifre enormi, non è che l’Europa sia da meno. Mettendo assieme l’Ira ad altri pacchetti analoghi disposti negli ultimi due anni (il Bipartisan Infrastructure Law e il Chips & Science Act) la cifra stanziata sale a circa 2.000 miliardi di dollari. Ma, in questo caso, il confronto va fatto con le misure emergenziali europee, tra le quali il Next Generation Eu da circa 700 miliardi di euro, cui si devono cumulare altri vari programmi (il Green deal, i fondi di coesione sociale, i certificati gratuiti assegnati nell’ambito dell’Emission Trading Scheme, ecc.). Insomma, sicuramente Washington in questo momento sta mettendo sul piatto risorse maggiori, ma la sproporzione non è così clamorosa come potrebbe apparire a prima vista.    

 

Inoltre, l’Ira va messo in contesto. Non è un atto contro l’Europa. Biden aveva bisogno di un provvedimento simile per risollevare la propria presidenza e accelerare il processo di transizione ecologica. Per ottenere la risicata maggioranza necessaria doveva parlare anche a quella parte del paese più sensibile alle politiche protezioniste (make America great again). Per questo sarebbe politicamente sbagliato (oltre che costoso e inutile) intraprendere una guerra con gli Usa a suon di aiuti di stato. A pensar male si fa peccato, ma molto spesso ci si azzecca: Adam Tooze sul Financial Times ha perfino avanzato il dubbio che Germania e Francia abbiamo cercato di creare un nemico virtuale per giustificare una svolta a favore di una politica industriale più assertiva dell’Ue, superando le tradizionali riluttanze della Commissione.

 

Che fare allora per fermare questa fobia anticoncorrenziale? Per l’Italia potrebbe essere l’occasione per cercare nuove alleanze in Europa, anche meno consuete, per esempio con i cosiddetti paesi frugali. Il premier olandese Mark Rutte ha già manifestato la propria opposizione all’allentamento degli aiuti sottolineando che gli Stati europei faticano a spendere le risorse del bilancio pluriennale e neppure hanno fatto richiesta di tutti i fondi messi a disposizione dal dispositivo di ripresa e resilienza (l’Italia è uno dei pochi ad aver chiesto interamente non solo i finanziamenti a fondo perduto ma anche i prestiti). In parallelo cerchiamo di portare avanti rapidamente i negoziati in corso con gli Usa, che già ci hanno fruttato alcune concessioni nel mese di dicembre. Gli Stati Uniti sono i nostri alleati, non rivali strategici. E in Europa puntiamo piuttosto a investimenti in progetti comuni, con risorse proprie dell’Ue.