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Quelli che sul Titanic

Guerra e crisi, va bene, ma dopo la pandemia continueremo a fare festa finché non affondiamo

Fabiana Giacomotti

L’e-commerce è in picchiata, i grandi magazzini sono affollati come nella Belle Epoque e i numeri del lusso parlano chiaro: la multinazionale del luxury Lvmh ha annunciato di aver chiuso i primi nove mesi dell’anno con una crescita del 28 per cento. Balliamo sul ponte di una nave che sta per colare a picco? Esercitarsi nei parallelismi storici non serve a niente. Finché ce n’è, festa

Visto che il dubbio mi attanagliava da mesi, insieme con l’antipatica sensazione di divertirmi parecchio quando non dovrei assolutamente e che anzi sarebbe più decente se mi sentissi in colpa, sono andata a cercare sull’archivio del Corriere della Sera e sui documenti dell’Istituto Luce se i festaioli dell’autunno 1939 fossero dei disgraziati come noi che da quando i virologi hanno aperto le gabbie mai una minestrina a casa.

Le analogie fra l’invasione della Polonia e quella dell’Ucraina non sono poche, dopotutto, sebbene gli esiti al momento e per fortuna divergano. In estrema sintesi, per i festaioli dimentichi, il primo settembre del 1939 dalla Germania, e dal 17 settembre dall’Unione sovietica, partì l’invasione che mirava a spartirsi il territorio polacco. Nessuno la definì in termini così brutali sui media, dopotutto quando mai un invasore dei tempi moderni si dichiara tale (l’ultimo ad andare, vedere e vincere, cioè a prendersi la responsabilità delle proprie azioni, probabilmente fu Giulio Cesare; gli altri sono andati invece a “liberare” e ad “evangelizzare”). Nelle cronache dell’epoca era chiamata “operazione militare”, “campagna di Polonia”, che sono locuzioni più rassicuranti, esattamente come l’“operazione speciale” di Vladimir Putin lo è adesso per i media russi. Una volta conclusa vittoriosamente per gli invasori tedeschi, che all’epoca come oggi erano la prima potenza industriale europea, la campagna di Polonia venne ribattezzata da tutti i giornali europei “guerra lampo”, conio lessicale e metaforico che usiamo tuttora, e scatenò come noto la reazione della Francia e della Gran Bretagna, alleate di Varsavia, la Seconda Guerra Mondiale. Fu un’escalation rapidissima, testimoniata dai giornali, pur nel linguaggio spurio e nella lettura fuorviante dei media dell’epoca e in particolare di quelli italiani e tedeschi. 

L’Italia viveva già in regime autarchico da anni: in parte voluto, in parte e in estrema sintesi imposto dalle sanzioni della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 che, se si volessero leggere le cronache di quell’epoca, parevano solo sproni a fare di meglio, a fare di più, a rallegrarsi e anche, letteralmente, a usare le sanzioni per pulirsi il culo, come da manifesto del piccolo Balilla sul vasino che afferra le sanzioni per farne carta igienica, kepì in testa perché fosse mai, un vero fascista è tale anche sul cesso e ne porta le insegne. C’era il problema dell’energia? Il carbone rischiava di mancare? Si sarebbe puntato sull’elettricità, viva il secolo elettrico dei Futuristi e viva i nostri fiumi che tanta acqua portavano alle nostre centrali. Mancava la seta? Noi avevamo la Snia con le sue viscose (e questo, in effetti). E ancora il cinema, le arti, la letteratura, la moda con i suoi sigilli di garanzia, tutte vesti cucite e ideate dalle sartorie italiane e guai a comprarle negli atelier francesi come facevano di nascosto le dive del regime, accidenti a loro. E poi, ovvio, c’erano le feste. Mentre l’esercito polacco, numericamente inferiore e molto peggio equipaggiato soccombeva alla Wehrmacht, l’Istituto Luce registrava ricevimenti, prime teatrali, celebrazioni dell’artigianato e feste dell’uva nell’agro pontino. Due mesi prima, ad Anschluss digerita, a Viareggio si era tenuta la “Festa della moda”, fra ricevimenti in spiaggia e sfilate. 

Lo stesso primo settembre dell’invasione si era conclusa la settima Mostra del Cinema di Venezia, in giuria Ugo Ojetti, Antonio de Obregon, Antonio Maraini, in concorso presente in massa la Germania ma anche la Francia con La Bete humaine di Jean Renoir e ovviamente l’Italia, perfino con un breve e folle documentario di rilettura dei confini dell’Europa. Mondanità, molte pellicce, moltissima seta. “Ballavano sul ponte del Titanic”, come si dice adesso, novant’anni dopo, cioè da una prospettiva abbondantemente storicizzata, e come si dicono talvolta anche adesso, dopo l’ennesima sfilata in capo al mondo con una smorfia di compiacimento, i modaioli e i festaioli che affollano qualunque evento mondano, ogni presentazione, persino il cocktail offerto in mezzo alla strada per una delle tante “week” di qualcosa (finito il vino, a Milano siamo ai gioielli), e poi tornano a casa, accendono la tv o il computer a seconda dell’età e scoprono che nel mondo al di fuori della bolla di champagne in cui si sono infilati saltano i ponti, le condutture del gas, i palazzi e i musei di una capitale che fino all’altro ieri visitavano in un tour tutto compreso della “vecchia Rus” e cercano con difficoltà di fare mente locale sulla precarietà molto evidente degli equilibri mondiali. La domanda che qualcuno trova il coraggio di porsi è se i passeggeri del Titanic che ballavano sul ponte sapessero di essere all’ultimo foxtrot o credessero che la nave sarebbe stata inaffondabile come gli era stato garantito dall’armatore fino a quando vennero trascinati a fondo dal peso del transatlantico spezzato in due. 

Per dirla in sintesi: quando è il momento di smettere di ballare e di iniziare a cercare posto sulle scialuppe di salvataggio? Il timing in certi frangenti è tutto, ma la verità è che dopo due anni di inattività mondana, di viaggi rimandati, di tute e di pantofole, la stragrande maggioranza dei cittadini occidentali che non vivono una guerra in casa da ottant’anni, per non dire dei nord-americani che hanno smesso di combattere intramuros nel 1865, non stanno più nella pelle dalla gioia di poter indossare nuovamente smoking e tacchi alti e di salire su un aereo, su un treno, su un’auto, su una nave, insomma di andare, di muoversi, di incontrare, di divertirsi, fosse con la scusa di fare affari o anche senza. Mezza Europa di questo vive: di turismo, moda, artigianato, insomma roba che bisogna vedere di persona, in presenza, con “l’experience”. Per noi dell’occidente festaiolo e corrotto contro cui si scaglia Putin salvo vedervi accorrere i suoi ragazzi migliori con ogni mezzo, la guerra è una nozione che stentiamo ad afferrare oltre a quelle che osserviamo da spettatori su uno schermo, ammirando quelli che vanno a farsene testimoni e firmando un bonifico per aiutare “le popolazioni colpite”. Le uniche battaglie a cui siamo avvezzi e che combattiamo con foga sono quelle fra le opposte fazioni sulla saga “tottieilary”, sul maschilismo di “Blonde” di Dominik con i feti parlanti o sul gradiente di realismo delle interpretazioni dei concorrenti dei Grande Fratello Vip in cui ritrovi in veste di vittima l’ex compagno delle medie che era furbino anche allora ma che adesso ti fa davvero pena, guarda a che cosa deve rassegnarsi a quasi sessant’anni uno privo di un mestiere. 

Le guerre che seguiamo con passione, partecipativi, sono guerre di politica commerciale, quelle che ultimamente si sono scatenate fra le multinazionali dell’alimentare e della moda che attorno al grande business della sostenibilità fissano ogni giorno l’asticella un po’ più in alto e ora resta da capire come si adegueranno i produttori di gioielli allo standard fissato da Prada con la sua nuova linea in oro riciclato al cento per cento e pietre certificate a una a una grazie alla blockchain (produzione a Valenza, il design ci suggerisce che Damiani c’entri qualcosa). Dopo tutto quello che avevamo scritto nel 2020 sulla digitalizzazione dei boomer e anche dei nonni, che mai più avrebbero fatto shopping di persona e avevano perfino imparato a prendersi le misure da soli, l’e-commerce è in picchiata mentre i grandi magazzini che davamo per morti sono affollati come nella Belle Epoque. Qualche sera fa, da un tavolo affacciato sul Canal Grande e allestito con grande sfarzo per il ballo celebrativo dei cinquant’anni dell’associazione Save Venice, l’assessore al turismo del Comune di Venezia Simone Venturini osservava compiaciuto come il movimento di visitatori fosse non solo “tornato ai livelli pre-Covid”, che è un po’ la locuzione-mantra di questo ultimo trimestre, sostenuta da crescite a due cifre in tutti i settori voluttuari in cui l’Italia eccelle, ma fosse addirittura migliorato sia in qualità sia nei livelli di spesa e soggiorno. Meno turismo di massa (leggasi meno cinesi, sulla cui ripresa nell’immediato nutrono comunque dubbi in tanti), più turisti alto-spendenti, compresi i cittadini russi che, nonostante siano ufficialmente spariti dai radar socio-economici da sei mesi, cioè dal giorno delle prime sanzioni e della molto pubblicizzata scenetta delle borse Chanel tagliuzzate per protesta dalle influencer di Mosca e san Pietroburgo a favore di smartphone, in realtà qualcuno ammette che, nei casi numerosissimi dei residenti all’estero, continuino non solo a viaggiare per divertimento, ma anche a usare carte di credito appoggiate su conti cinesi per acquistare beni di lusso ben oltre il limite dei trecento euro imposti per l’esportazione. 

“E’ bello il cospirar”, come canta Olga, la “donna russa che è donna due volte” in quello che è forse il verso riassuntivo della questione e di quel gran pastiche della “Fedora” di Umberto Giordano che in queste ore va in scena al Teatro alla Scala in un nuovo allestimento di Mario Martone, anche questo procrastinato per due anni e dunque scusateci se è una storia di spie russe e fra due mesi sarà la volta del Boris. Sarà che ci facciamo più caso di un tempo, ma i conterranei di Putin sembrano ovunque. Li senti parlare alle tue spalle con quelle inconfondibili nasali e gutturali strascicate mentre aspetti la gondola pubblica per attraversare il Canal Grande, al bar del centro di Roma mentre ordini il caffè, in fila per la visita dei Fori, e continui a domandarti se anche loro vivano nella bolla dello champagne oppure se abbiano in tasca il passaporto europeo comprato a Malta, ville al Forte che d’estate prestano di nascosto agli oligarchi, insomma che ci facciano qui, con la borsa griffata e una resistenza genetica al freddo che tu sai già di non avere quando sarai costretto a regolare il termostato della casa in montagna sui diciannove gradi. 

Le cose andrebbero viste in prospettiva, si diceva, à la distance, ma la verità è che nella distanza prospettica dei fatturati della moda e del turismo, che si calcolano rispettivamente a un anno e tre mesi di distanza, le cose non sono mai andate meglio di adesso, e dunque festa. Inizieremo a soffrire per i riverberi delle sanzioni, dell’aumento dei costi dell’energia e dell’inflazione che sta facendo chiudere i portafogli a milioni di medio-spendenti fra sei mesi, diciamo da marzo in poi, ma per adesso è tutto uno stappare altro champagne e vini pregiati, uno dei tanti settori a cui il Covid ha fatto solo del bene, visto che il livello medio del consumo si è alzato in modo evidente. Tre giorni fa Lvmh ha annunciato di aver chiuso i primi nove mesi dell’anno con una crescita del 28 per cento a 56,5 miliardi di euro e che nel solo terzo trimestre, cioè con i negozi in Russia chiusi e la Cina rallentata dai continui lockdown, l’aumento generale del giro d’affari è stato del 19 per cento, ma del 23 per cento per il segmento vini e liquori. Non fosse per il presidente di Confindustria Moda, Ercole Botto Poala, che ha messo le mani avanti col governo di là da venire in merito al prezzo del gas, nessuno avrebbe mai visto un recupero altrettanto rapido dopo una botta economica come quella provocata dalla pandemia. Scriveva qualche anno fa Guido Ceronetti evocando il Büchner del “Woyzeck”, che se ogni uomo è un abisso, la nostra memoria è un abisso parallelo, le cui rapine sono fulminee e i recuperi ci danno pena. E in effetti, esercitarsi nei parallelismi storici non serve a niente. Finché ce n’è, festa.