La premier britannica Liz Truss (LaPresse)

dio salvi la sterlina

L'Inghilterra come Grecia e Italia di dieci anni fa? Non è più fanta-economia

Stefano Cingolani

La crisi energetica e l’inflazione, aggravate dalla guerra di Putin, hanno colpito duramente il Regno Unito. Così la premier Liz Truss, da poco insediata, si è presenta con un’agenda alla Thatcher 43 anni dopo. Allarmando i mercati internazionali e provocando il crollo della valuta britannica

Complottisti di tutto il mondo calmatevi. Il crollo della valuta britannica questa volta non ha nulla a che fare con George Soros presidente ad honorem del Cpgm (che sta per complesso pluto-giudaico-massonico) e nemico numero uno del suo connazionale Viktor Mihály Orbán. Anche se in questo mese si celebra il trentesimo anniversario dell’attacco concentrico alla lira sterlina e alla lira italiana (il 16 settembre 1992 venne battezzato “mercoledì nero”), la storia non si ripete. Troppe cose sono cambiate, compresa l’età di Soros che ha raggiunto i 92 anni. Tutte tranne una: allora come oggi l’onda lunga parte da Mosca. Ebbene sì, geopolitica e geo-economia come sempre s’incrociano.

 

Il 26 dicembre 1991 si scioglie ufficialmente l’Unione sovietica. L’anno era cominciato con una violenta repressione dei moti indipendentisti nei paesi baltici, poi ad agosto il fallito golpe e l’attacco al parlamento che di fatto liquida Gorbaciov a favore di Eltsin. Il collasso dell’Urss ricade sul paese più vicino, la Finlandia: il markka, la moneta nazionale, si svaluta, segue una reazione a catena. Le corone scandinave precipitano dopo che a giugno la Danimarca respinge la ratifica del trattato di Maastricht firmato nel dicembre precedente. Intanto la Germania, alle prese con l’unificazione, aumenta i tassi per bloccare l’inflazione che arriva dall’est. Il mercato sente puzza di bruciato e comincia a speculare contro gli anelli più deboli. Gli interventi della Banca d’Inghilterra e della Banca d’Italia non servono. Soros vende, ma i capitali sono in fuga da tempo dalle borse di Londra e Milano, miliardi su miliardi di pound e di lire. In Italia il governo guidato da Giuliano Amato stringe i freni, arriva addirittura a un prelievo forzoso dai conti correnti alimentando la convinzione che l’Italia sia alla frutta e l’Inghilterra non stia molto meglio. A Francoforte e a Parigi si capisce che le due valute non potranno più restare nello Sme, il sistema monetario europeo. Negoziati febbrili si svolgono nel weekend del 12-13 settembre, ma l’esito è deludente: la lira svaluta del 7 per cento, la Germania riduce il tasso di sconto di un minuscolo quarto di punto. I mercati non sono contenti, picchiano duro su lira italiana, sterlina e peseta, finché Roma e Londra non annunciano di uscire dagli accordi europei di cambio, mentre Madrid svaluta. L’inutile difesa del cambio dissangua le riserve. Comincia poi il lungo percorso che porterà dieci anni dopo all’introduzione dell’euro dal quale la sterlina resta fuori. Con poche eccezioni, la valuta britannica è sempre rimasta più forte dell’euro e dello stesso dollaro, adesso sta accadendo il contrario. Come mai? C’è una spiegazione immediata e una di più lungo periodo. Cominciamo dalla prima.

La crisi energetica e l’inflazione non scoppiano con l’invasione russa dell’Ucraina, ma senza la mossa di “Mad Vlad” Putin sarebbero state difficoltà temporanee. Il Regno Unito viene colpito duramente, nonostante dipenda poco dal metano siberiano, molto meno dell’Italia e della Germania. Il problema non è la mancanza fisica del gas (ne arriva ancora in abbondanza dalla Norvegia e via mare), è l’impennata dei prezzi che s’estende alle altre materie prime e s’aggiunge all’inflazione interna, indotta dall’aumento della domanda. La Gran Bretagna così tocca un record e supera la soglia psicologica del 10 per cento, più della Ue e degli Usa. Per contrastare il mix velenoso di inflazione e crisi energetica Liz Truss da poco insediata (è stato l’ultimo atto ufficiale di Elisabetta II) si presenta con un’agenda alla Thatcher 43 anni dopo. Insieme al suo Cancelliere dello scacchiere, il dottrinario Kwasi Kwarteng, propone un bilancio tutto a debito da 45 miliardi di sterline tra tagli di tasse e spese pubbliche che lasceranno il Tesoro senza uno scellino, ha scritto sul Financial Times David Laws, ex ministro del partito liberal-democratico che ha definito la politica economica dei conservatori “irresponsabile, eccentrica e regressiva”.

 

Propaganda dell’opposizione? Forse, ma il fatto è che i mercati finanziari gli danno ragione e vendono un fracco di sterline. Il tasso di cambio precipita del 37 per cento rispetto al dollaro. Il Fondo monetario internazionale lancia un aspro attacco a un piano finanziario senza copertura e chiede a Londra di ripensarci con urgenza, anche perché quel pacchetto non potrà che aggravare l’inflazione spingendo la Banca d’Inghilterra a un forsennato aumento del costo del denaro destinato a far piombare il paese in recessione molto peggio e molto prima del previsto. Janet Yellen, segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, annuncia che sta seguendo la situazione molto da vicino. La sterlina, come tutte le principali valute, si è via via indebolita nei mesi scorsi rispetto a un dollaro molto forte, probabilmente sopravalutato dopo che la Federal Reserve ha lanciato un’aggressiva campagna di aumento dei tassi per contrastare la corsa dei prezzi. La Old Lady, come viene chiamata la Bank of England, ha cercato di seguire l’onda, ma anziché apprezzarsi, la sterlina è crollata. Il bilancio Truss-Kwarteng ha dato la mazzata decisiva. Cosa può fare a questo punto la Banca d’Inghilterra? Aumentare ancora i tassi (secondo Bloomberg arriveranno oltre il 5 per cento), intervenire sul mercato acquistando titoli in sterline, lanciare un monito al governo perché quanto meno aggiusti il tiro. Ebbene, le ha provate tutte, a novembre alzerà di un altro punto i tassi, ma finora ha avuto scarso successo. 

 

L’Istituto per gli studi fiscali, un think tank britannico molto influente, ha sottolineato le preoccupazioni dei mercati per un piano destinato ad aumentare il debito pubblico arrivato a sfiorare il 100 per cento del prodotto lordo e salito di ben 25 punti. Ovviamente ha influito la pandemia come ovunque, ma già il governo guidato da Boris Johnson si era lanciato in una politica fiscale spendi e spandi, contando su una moneta comunque sopravalutata rispetto al dollaro e sostanzialmente stabile, grazie alla quale avrebbe attirato capitali per finanziare l’espansione esterna e ridurre il disavanzo con l’estero (è al 5 per cento del pil, peggio di ogni paese avanzato). Un calcolo che si rivela sbagliato. Secondo Paul Johnson, direttore dell’Ifs, il debito rischia di non essere più sostenibile e la Banca centrale deve mettere in cantiere misure d’emergenza innalzando subito e in modo eccezionale i tassi d’interesse, una cura choc. L’Inghilterra è ridotta come la Grecia e l’Italia dieci anni fa? Non è più fanta-economia. Larry Summers, segretario al Tesoro nel secondo mandato di Bill Clinton, sostiene che “la Gran Bretagna si sta comportando come un paese emergente che si trasforma in un paese sommergente” (gioco di parole facile, ma efficace). “Prima la Brexit con le sue conseguenze, adesso questa politica fiscale, credo che Londra sarà ricordata per aver perseguito le peggiori politiche macroeconomiche di ogni altro grande paese da un lungo periodo di tempo a questa parte”, ha sentenziato l’economista. I mercati gli danno ragione, tuttavia sia la Yellen sia Summers dovrebbero chiedersi quanta responsabilità hanno gli stessi Stati Uniti.

 

La sterlina, lo ripetiamo, non è l’unica valuta a svalutarsi. Lo yen giapponese cade rovinosamente, ma scende a rotta di collo anche il renminbi (o yuan) cinese. Se in occidente a deprezzare la moneta è l’inflazione, in Cina la caduta dell’economia interna costringe ad abbassare il costo del denaro, quindi la politica monetaria non può venire in aiuto al cambio. A tutto questo s’aggiunge l’autonoma forza del dollaro. Rispetto a un anno fa lo yuan ha perso il 18 per cento, lo yen il 24, l’euro circa il 16. Perché il biglietto verde è salito così tanto e continua ad apprezzarsi? Se poniamo la domanda a un cambista, o comunque un finanziere, dirà che la Federal Reserve ha aumentato i tassi d’interesse prima delle altre banche centrali e non si fermerà, alimentando le aspettative al rialzo. Del resto, anche l’inflazione è partita per prima negli States spinta dall’aumento dei consumi e dei salari dopo la fine della pandemia. Le obbligazioni danno un rendimento più alto rispetto a quelle tedesche e ciò spinge a investire in bond americani invece che in quelli tedeschi. Tuttavia, ci sono alcuni fattori strutturali e politici da prendere in considerazione. Il primo riguarda l’energia. 

Gli Usa sono più al riparo perché hanno raggiunto l’autosufficienza, tanto che ormai da anni esportano petrolio e gas. Ai pozzi tradizionali in terra e nel Golfo del Messico si è aggiunto il boom del fracking. Il costo di produzione degli idrocarburi a stelle e strisce è più caro rispetto a quelli che vengono dal Golfo Persico, quindi gli Usa hanno interesse a vendere all’estero quando i prezzi sono elevati. La spinta al rialzo dell’ultimo anno, dunque, è stata una manna, ha fatto entrare valuta della quale gli Stati Uniti hanno gran bisogno per compensare la loro bilancia di pagamento sempre in forte disavanzo (ora è al 3,5 per cento rispetto al pil), possiamo dire insomma che in patria tornano più dollari anche se non ancora tanti quanti ne vengono esportati. Con la guerra in Europa, inoltre, la valuta americana sta diventando un bene rifugio. Un tempo si compravano franchi svizzeri e marchi tedeschi oltre a diamanti e beni preziosi, per mettersi al riparo dalle tempeste. Adesso la Germania non è più un posto sicuro, la Svizzera è troppo piccola, l’America ha un primato assoluto. Non ha bisogno né di metano né di petrolio russo, possiede più armi e soprattutto migliori, compresi gli arsenali nucleari tattici. E’ chiaro che nel caso in cui si arrivasse a un’escalation atomica nessuno sarebbe al riparo se non forse in Oceania e Sud America. I mercati, però, scommettono su una guerra tradizionale e pur sempre limitata. 

 

L’America come grande ombrello, dunque, ma non c’è solo questo. Gli spazi di manovra della Banca centrale sono maggiori perché l’aumento del costo del denaro non ha finora effetto sull’occupazione. Anzi, i posti di lavoro continuano ad aumentare e questo è dovuto in parte alla domanda interna di merci e servizi oltre che al reshoring, cioè il rimpatrio di parte della catena produttiva, e a una importante riconversione della manifattura americana. Il presidente Biden ha introdotto una serie di misure per spingere l’industria nazionale, a cominciare da spese dirette per infrastrutture, crediti fiscali e altri sussidi per imprese come i produttori di batterie e di semiconduttori, oltre a nuove norme federali sulle procedure di gara e le offerte competitive che favoriscono le imprese non necessariamente americane, ma comunque localizzate negli States. C’è di più e lo racconta un ampio reportage del New York Times. 

Dagli anni 70 in poi ogni recessione ha provocato una perdita di posti di lavoro rimpiazzati con macchinari, nuove tecnologie e outsourcing nelle successive fasi di crescita. La ripresa dopo la pandemia è stata diversa: l’industria manifatturiera americana ha creato abbastanza occupati da tornare ai livelli precedenti e anche un po’ oltre, si tratta di un milione e 430 mila posti di lavoro, 67 mila più dei livelli pre pandemici. Il pacchetto di stimoli e sostegni da 1.900 miliardi di dollari chiamato American Rescue Plan ha dato una spinta importante, così come il cambiamento di preferenze dei consumatori. Il New York Times porta ad esempio la riduzione delle spese per viaggi e ristoranti a favore di acquisti di beni come auto o mobilia, divani, oggetti per la casa. I motori industriali di questa ripresa includono impianti farmaceutici, ma anche birrerie o fabbriche di gelati, quindi un’ampia gamma, non solo imprese high tech. Ne hanno tratto vantaggio le aree dei Grandi Laghi ai confini con il Canada, le zone montane dell’ovest e del sud est, zone spesso agricole o a basso sviluppo. Anche i produttori americani hanno trovato difficoltà nell’approvvigionamento, ma l’accorciamento della catena produttiva favorisce senza dubbio l’occupazione.

Brian Deese, direttore del National Economic Council, sottolinea la sua sorpresa nel vedere quante imprese, americane e straniere, si dichiarano impegnate ad espandere gli occupati e la produzione negli States. Ciò rende il paese una calamita per le aziende. Anche per questo oggi la Federal Reserve può alzare i tassi d’interesse con minor rischio che la stretta provochi un’ondata di licenziamenti. Il suo mandato è tener conto sia dei prezzi sia dei posti di lavoro, bilanciando l’uno e l’altro; vedremo nei prossimi mesi se sarà ancora possibile, segnali preoccupanti di una recessione prossima a venire già ci sono. Tuttavia a sostenere il dollaro c’è il fenomeno di fondo sottolineato da Deese: “Gli Stati Uniti stanno adottando politiche che creano un ambiente favorevole a investire qui nel lungo termine”. Tutto ciò non esiste in Gran Bretagna, anche per questo la banca centrale ha maggiori difficoltà a sostenere la valuta. Lo spread con la Germania è salito a 221 punti, quasi quanto quello italiano e la stessa Old Lady mette in guardia da un rischio di sostenibilità del debito. La crisi britannica da valutaria è diventata finanziaria e può trasformarsi in una crisi economica più in generale. Ecco perché la stessa Unione europea, rinnegata, vilipesa, bistrattata dagli inglesi, dovrebbe in ogni caso prendersi cura delle isole britanniche la cui sorte non è separata dalla nostra. 

 

Sei secoli fa, Gilles Li Muisis, abate di Tournai, si lamentava che “in fatto di monete le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore, e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario”. Come dargli torto? E’ vero ancor oggi. Questa oscurità, però, deriva dai “molteplici legami della moneta con tutti gli aspetti dell’attività umana”, scriveva il grande storico Marc Bloch poco prima di essere ucciso dai nazisti nel 1944. “A un tempo barometri di movimenti profondi e cause di non meno formidabili conversioni delle masse, i fenomeni monetari si collocano tra i più degni di attenzione, i più rivelatori, i più carichi di vita cui lo storico deve rivolgere la propria attenzione”. La moneta non è soltanto un numerario e una riserva di valore, è un’arma potente e una leva per cambiare intere società.

 

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