Assemblaggio della carrozzeria di un’auto elettrica nello stabilimento Volkswagen di Zwickau, nella Germania orientale (Ap Photo/Jens Meyer) 

depressione tedesca

È la paura il vero nemico di Berlino

Stefano Cingolani

Lo Spiegel traccia scenari drammatici per l’economia tedesca, ma numeri alla mano la Germania è in grado di trasformarsi e “ha un ruolo vitale da giocare nel tenere insieme il progetto europeo”. L’Economist spiega perché essere fiduciosi

Il silenzio di Angela Merkel, le incertezze di Olaf Scholz, il ritorno dell’inflazione che evoca spettri antichi e ansie profonde anche se immotivate, ma soprattutto la guerra di Putin che sconvolge l’assetto faticosamente raggiunto dopo la caduta del Muro di Berlino. Perché la Germania è sempre stata nel bene e nel male il baricentro dell’Europa e ancora lo è. L’Economist in una storia di copertina pubblicata a Ferragosto arrivava a ringraziare “Zar Vlad” perché ha “svegliato il più importante paese d’Europa”. Der Spiegel, l’influente settimanale amburghese, punta adesso il dito sulla recessione in arrivo, nuova fonte di paura, e usa il sostantivo “die Angst” che accoppia il timore all’angoscia. Certo è che il Modell Deutschland è scosso nel profondo, al di là della congiuntura economica, al di là delle fibrillazioni politiche. 

   
Prima la pandemia e ora l’invasione russa dell’Ucraina hanno segnato la fine di quello che è stato a lungo un “triangolo virtuoso”: stabilità europea, vendite all’estero, benessere in patria. Il problema è che dietro alle virtù si nascondeva un vizio doppio: la dipendenza dal gas di Mosca e dalla domanda di Pechino.

     

L’equilibrio geopolitico è saltato per colpa della Russia, alla quale la cancelliera Merkel aveva di fatto concesso la Crimea nel 2014 purché l’appetito imperiale si fermasse là, applicando così quella Realpolitik che Henry Kissinger non smette mai di predicare e praticare. Ma nell’Unione europea era già stato spezzato l’equilibrio economico fondato sul “compromesso renano” (rigore dei bilanci pubblici, inflazione zero, il Bund come bene rifugio, crescita bassa, ma ordinata). La grande crisi finanziaria del 2008-2010 e il crac dei debiti sovrani lo avevano messo in discussione, la pandemia è stata la ramazza finale che ha spinto tutti i paesi a spendere, ha fatto saltare il Patto di stabilità, ha innalzato i debiti pubblici di venti punti in media rispetto al prodotto interno lordo, costringendo la Banca centrale a stampare moneta e a creare l’ambiente adatto all’inflazione. Bastava una miccia, materie prime e gas russo l’hanno accesa. L’altro pilastro, la Cina, vacilla ormai da due anni, per colpa del Covid-19, delle politiche repressive decise dal “nuovo imperatore” Xi Jinping, di un sistema economico che andrebbe riformato dall’alto e dal basso se il Partito comunista non temesse di perdere la sua presa sul potere. Bolla immobiliare, crescita lenta, stagnazione demografica, compressione del mercato e dei suoi protagonisti, statalismo inefficiente, tensioni etniche, malcontento sociale, tutto ciò ribolle nell’immenso calderone asiatico. Molti dubitano che “la fabbrica del mondo” possa rimettersi in moto come un tempo. Il ripensamento sulla globalizzazione, cioè l’accorciamento della catena produttiva, può offrire grandi chance a una industria tedesca che resta forte e ben radicata in patria e in Europa, ma a patto che anch’essa, anche quel Mittelstand che fa da piedistallo ai grandi Konzern, sia in grado di cambiare. Proprio la recessione potrebbe essere uno stimolo per avviare un salto di qualità. 

 

Le nude cifre fino a ieri non erano tali da suscitare ansia. La crescita rallenta, ma quest’anno non sarà negativa, la bilancia dei pagamenti mostra un sovrappiù pari al 3,5 per cento del prodotto interno lordo, molto più della Cina (2,2 per cento) e il maggiore nell’area euro dopo la solita Olanda, il costo del denaro è all’1,6 per cento, il più basso tra i paesi che adottano la moneta unica. Spicca certo l’inflazione (i prezzi al consumo crescono dell’8 per cento), ma è così ovunque e ogni evocazione della Repubblica di Weimar è ridicola non solo per il confronto delle cifre, ma perché negli anni Venti del secolo scorso la corsa dei prezzi durò meno di due anni e venne fermata già nel 1924. Non fu questa la causa economica della vittoria di Hitler nel 1932, ma semmai la disoccupazione di massa esplosa dopo il crac americano del 1929 e l’onda d’urto in Europa un anno dopo. La storia non è maestra di nulla, anche perché spesso la si cita e non la si studia. Non solo. L’altra grande paura tedesca, cioè che il blocco del gas russo provochi il collasso dell’industria e delle famiglie, non trova fin qui riscontro nei dati. Quando Putin invase l’Ucraina la dipendenza da Gazprom era pari al 55 per cento del metano importato. Ora è scesa al 26 per cento. Grandi colossi come Mercedes-Benz e Basf sostengono di poter farne a meno prima del previsto, l’industria dell’Auto conta di tagliare del 50 per cento l’utilizzo del gas. Il governo ha deciso di sostenere le aziende elettriche in difficoltà. Mentre il pragmatismo del vicecancelliere, il Verde Robert Habeck, ha rallentato la chiusura delle tre centrali nucleari in funzione e ha autorizzato l’inquinante e demonizzato carbone. Per ora non è previsto nessun razionamento, solo un uso “frugale” di gas e luce da parte delle famiglie. Se Gazprom chiude del tutto i rubinetti le cose possono peggiorare e questo alimenta i timori dei quali parla lo Spiegel.

  

Le cattive notizie si stanno moltiplicando, scrive il settimanale e snocciola una serie di esempi, a cominciare dalla carta igienica, sì proprio. Serve molta energia per trasformare il legno. Hakle, il maggior produttore, utilizza 60 mila megawattora di gas e 40 mila di elettricità ogni anno. L’impennata dei prezzi fa sballare i bilanci. Aziende di fertilizzanti minacciano la chiusura. ArcelorMittal ferma due acciaierie. I calzaturieri licenziano e Görtz, il maggior rivenditore, è insolvente. Per molti il peggio deve ancora venire e tutti vogliono aiuti e sostegni da parte del governo. La rassegna del disastro è quanto mai ricca. Ci sono nicchie dal valore strategico che possono far scattare una vera reazione a catena. Per esempio l’AdBlue, additivo chimico fondamentale per il diesel: comincia a mancare e già si dipinge lo scenario più nero, che si blocchino le auto, i Tir, persino i camion dei pompieri. La prima “trappola”, la peggiore, è dunque quella della scarsità. La seconda è quella del prezzo. Prendiamo la Volkswagen, di crisi ne ha passate molte, persino peggiori, “negli anni siamo diventati più resistenti”, dichiara Gunnar Kilian, direttore delle risorse umane, circa venti esperti seguono giorno per giorno l’andamento del fabbisogno energetico e discutono le soluzioni anche temporanee con i sindacati nel consiglio di fabbrica come e quando ridurre la temperatura degli uffici e dell’officina per risparmiare. Tuttavia da un lato le difficoltà di approvvigionamento, dall’altro la penuria di gas e il suo prezzo costringono a rallentare la produzione. Così che c’è una forte richiesta inevasa: per una Golf bisogna attendere persino un anno. Ciò dimostra da un lato che non esiste ancora un crollo della domanda interna, dall’altro che i problemi vengono dal lato dell’offerta. Questa è una supply side crisis, lo Spiegel non lo scrive, ma è quel che deriva dalla sua inchiesta. Il rischio che scatti una terza trappola, cioè una caduta dei consumi, esiste sempre, tuttavia è legato più alle aspettative che a una riduzione dei redditi. La domanda di case è esplosa dopo la pandemia, adesso anche chi ha intenzione di acquistarla si ferma in attesa di tempi migliori. 

 

 E’ di nuovo la paura, è l’Angst il nemico da battere. I media danno ampio spazio ai lamenti delle famiglie che non riescono a pagare i conti, anche in Germania sotto accusa sono le famigerate bollette che in Italia vengono sventolate in piazza come tante bandiere di resa e vessilli di rivolta. Lo stesso serissimo Spiegel si fa contagiare dal clima e dallo sconcerto: scrive che il balzo dei prezzi del gas mina la competitività dell’industria tedesca, anche se l’impennata riguarda tutti i paesi concorrenti più o meno con la stessa violenza, dunque non c’è per nessuno un vero vantaggio competitivo. Ciò dovrebbe spingere verso quella risposta coordinata della quale si sta parlando nell’Unione europea, invocata anche da Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, ma lontana dal vedere la luce.

 

 La Germania assomiglia all’Italia in un modo che molti non si aspetterebbero. Resta dipendente dalle esportazioni dell’industria manifatturiera, ha una carenza di infrastrutture peggiore che in Italia (soprattutto nei treni ad alta velocità) perché il rigore di bilancio ha penalizzato gli investimenti pubblici più della spesa corrente, soprattutto per il welfare, è debole nel settore dei servizi, anche quelli finanziari, è in ritardo nella digitalizzazione, l’innovazione è concentrata nel migliorare l’esistente più che nello sperimentare il nuovo. “Non nascerà da noi nessuna Facebook, ma piuttosto servizi strettamente legati alla manifattura come l’internet delle cose”, ha dichiarato all’Economist Jens Suedekum dell’Università di Düsseldorf. Proprio come in Italia. I due paesi sono in coda anche nelle spese per la Difesa, di poco sopra l’1 per cento del pil. Scholz ha promesso di arrivare al 2 per cento e sono stati stanziati 100 miliardi di euro, ma l’esercito tedesco è burocratico e mal attrezzato, anche per questo è tanto restio a fornire materiale sofisticato all’Ucraina. L’Italia è più avanti perché si è impegnata in molti fronti esteri e ha sviluppato una considerevole maestria nelle forze d’intervento non lontana da quella francese. Il pacifismo tedesco è tenace anche se il cancelliere ha cercato di scuoterlo annunciando, tre giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che lo spirito del tempo stava mutando più bruscamente di quanto si potesse attendere. Il discorso dello Zeitenwende (la svolta epocale) come viene chiamato, ha segnato una rottura rispetto al passato e anche un cambiamento nell’immagine di Scholz. Tuttavia la sua popolarità resta modesta, l’opinione pubblica è inquieta, gli elettori socialdemocratici sono preoccupati dalla ricaduta economica delle sanzioni, in modo non diverso, anche in questo caso, dalle pulsioni che attraversano l’Italia produttiva. La Germania è in grado di trasformarsi e “ha un ruolo vitale da giocare nel tenere insieme il progetto europeo”, scrive l’Economist, purché non prevalga la tendenza in lei sempre presente di ricadere nella cautela, nella stasi, in depressione. 

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