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Un debito comune europeo è la soluzione ai guai italiani? Qualche dubbio

Giampaolo Galli

Il messaggio politico di proposte come quella messa in campo dalla Banca d'Italia è che il percorso che l'Italia deve fare per rendere sostenibile la propria finanza pubblica non cambia di un millimetro

Nei mesi scorsi, la Commissione Europea ha raccolto contributi di istituzioni e centri di ricerca su come riformare a governance europea. Quasi tutte le proposte arrivate dall’Italia, compresa quella che ha avuto la sponsorizzazione del governo, contenevano idee per mettere in comune o cancellare almeno una parte dei debiti in essere.  Ora il tema è divenuto meno urgente perché, a seguito dell’invasione dell’Ucraina, le regole di bilancio sono state sospese per un altro anno, fino alla fine del 2023.  Tuttavia la discussione continua e ad essa Ignazio Visco, nelle sue considerazioni finali,  ha dato il contributo della Banca d’Italia. Su questa questione è utile dire alcune cose. 

La prima è che questo aspetto del dibattito sul debito è quasi assente negli altri paesi. Ovunque si discute di come adattare le regole alla nuova realtà, tenendo conto ad esempio dell’esigenza di finanziare la transizione verde o l’aumento delle spese militari; in vari paesi, si discute dell’opportunità di rendere permanente o quantomeno replicabile il meccanismo del Next Generation UE. Quasi solo in Italia si discute di mettere in comune i vecchi debiti. 

 

La seconda cosa da dire è che questo interesse dell’Italia ha due ragioni molto solide. La prima, serissima, è che c’è molta incertezza su come farà l’Italia a gestire l’enorme massa di debito accumulato nel passato (dagli anni ‘80 fino all’anno della pandemia), a maggior ragione dal momento che l’era dei tassi zero o negativi sembra essere giunta alla fine. Il secondo motivo è che un debito comune sarebbe un modo per migliorare l’architettura dell’Unione Monetaria: si creerebbe un asset europeo privo di rischio che dovrebbe sostituire i debiti nazionali (rischiosi in alcuni paesi) nei portafogli delle banche e sarebbe il candidato ideale per le operazione della banca centrale.  La terza considerazione è che per poter portare in Europa proposte di mutualizzazione del debito in essere occorre escogitare dei modi per evitare di trasferire oneri fiscali sui contribuenti di altri paesi, nonché per preservare gli incentivi a perseguire politiche di bilancio responsabili.  

Questo in effetti è ciò che cerca di fare la proposta della Banca d’Italia. Al di là dei dettagli tecnici, che sono piuttosto complessi, il messaggio politico è che proposte di questa natura non cambiano di un millimetro il percorso che l’Italia deve fare per rendere sostenibile la propria finanza pubblica.  E ciò proprio in virtù della premessa: se non si traferiscono oneri sui contribuenti di altri paesi, l’onere del debito rimane tutto sulle spalle degli italiani, presenti e futuri. Ma ciò non significa che proposte come quella della Banca d’Italia siano inutili. Esse servono ad evitare che improvvisi cali della fiducia trasformino una crisi di liquidità in insolvenza. Uno stato, come un’impresa, può essere sulla via di un risanamento virtuoso e tuttavia perdere la fiducia dei finanziatori. Con un’ampia mutualizzazione dei debiti, situazioni di questo tipo è più difficile che si realizzino. Per dirla con la metafora di Pier Carlo Padoan, il sentiero rimane stretto, è in salita e occorre fare la fatica di percorrerlo fino in fondo. Diminuisce però il rischio di un incidente di percorso (ad esempio il contagio di un altro paese che fa default, come fu il caso della Grecia nel 2012) che ci fa sdrucciolare fuori dal sentiero e nel burrone.

L’altro messaggio politico è che affinché si verifichi la seconda condizione posta dalla Banca d’Italia (preservare gli incentivi a condurre politiche responsabili) occorre che gli altri paesi, oppure la Commissione Europea siano dotati di un potere molto incisivo nei confronti dell’Italia, che in sostanza finirebbe per cedere all’Unione sovranità in materia di bilancio. Gli altri paesi non potrebbero infatti non chiedersi cosa succederebbe nel caso in cui l’Italia, o un altro paese in una situazione simile,  smettesse di versare la propria quota per il servizio del debito che è stato messo in comune. Si possono immaginare vari modi per sanzionare il paese in questione, ma tutti comportano un notevole trasferimento di sovranità fiscale  alle istituzioni europee. Come al solito, non ci sono pasti gratis. Se vogliamo avere l’aiuto dell’Europa, dobbiamo essere disposti a cedere sovranità. E forse non sarebbe un male: certamente gli altri paesi non sarebbero contenti di vederci fare le politiche come quelle di quota 100 e dei bonus a pioggia. 

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