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Tutta la verità, nient'altro che la verità, sul Reddito di cittadinanza

L'istituto di previdenza in tre anni ha revocato, a seguito di controlli, il reddito di cittadinanza a più di 158mila famiglie

Lorenzo Borga

La vera domanda è questa: il reddito di cittadinanza riesce a portare i beneficiari a una condizione sociale e, quando possibile, lavorativa migliore? Centinaia di migliaia di persone non si sono mai presentate ai centri per l’impiego, né sono state contattate.

Sono trascorsi 38 mesi da quando il primo bonifico di reddito di cittadinanza è stato incassato. Ma ancora rimane una misura discussa e invisa a una parte rilevante dell’opinione pubblica. Tanto che c’è chi propone un referendum per abolirlo. Matteo Renzi vuole infatti lanciare dal 15 giugno una campagna per raccogliere le 500mila firme necessarie a indire un referendum abrogativo della misura varata dal primo governo Conte. Secondo il leader di Italia Viva il reddito di cittadinanza “è una vergogna, è possibile che la gente prenda i soldi per non lavorare? Non è una misura contro la povertà, per farlo bisogna trovare un lavoro a chi non ce l'ha”.

Come sempre, bisogna distinguere i fatti dalla propaganda. In ogni paese europeo – l’Italia è stata l’ultima a introdurlo – esiste una rete di protezione contro la povertà che tutela le persone che non lavorano. Va tenuto conto peraltro che non tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza sono disoccupati: il 20,1 per cento rientrano infatti nella categoria dei “woorking poor”, vale a dire lavorano ma ricevono uno stipendio talmente basso che deve essere rimpinguato dal reddito di cittadinanza. Anche lo stesso sussidio di disoccupazione va a chi un impiego lo aveva e l’ha perso. Il punto è un altro: il reddito di cittadinanza riesce a portare i beneficiari a una condizione sociale e, quando possibile, lavorativa migliore?

 

Secondo l’ultimo report dell’Inps tra gennaio e aprile più di un milione e mezzo di famiglie hanno ricevuto l’aiuto, vale a dire 3 milioni e 362mila persone. La prima notizia è che si tratta di un numero leggermente più basso rispetto allo stesso periodo del 2021, il primo calo dall’introduzione del sussidio. A dimostrazione che, fortunatamente, il rimbalzo economico che ha seguito la pandemia ha dato la possibilità, a chi voleva e poteva cercare un lavoro, di trovarlo. I numeri dell’Inps possono anche contestualizzare una delle critiche che spesso vengono rivolte al reddito di cittadinanza: quella dei “furbetti”. Cioè di coloro che truffano l’Inps e tutti i contribuenti ricevendo gli aiuti nonostante non ne abbiano effettivamente bisogno, grazie a lavoro in nero ed evasione fiscale. L’istituto di previdenza in tre anni ha revocato, a seguito di controlli, il reddito di cittadinanza a più di 158mila famiglie. Un numero che sembra elevatissimo, ma che se confrontato con il numero di nuclei beneficiari raggiunge una percentuale tra il 2 e l’8 per cento (infatti non si dispone di numeri precisi sulle famiglie che almeno una volta in questi anni hanno incassato il Rdc). Per di più l’Inps ha chiarito che la più frequente ragione di revoca non è la scoperta di redditi e patrimoni non dichiarati, ma l’assenza dei requisiti di residenza in Italia per gli stranieri.

 

Ma sono tutti concordi – partiti, economisti e parti sociali – che il punto debole del reddito di cittadinanza sia l’assistenza nella ricerca di un impiego. Dei più di 3 milioni di beneficiari, quelli che secondo Anpal – l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro – possono realisticamente lavorare sono circa 1 milione. Gli altri sono inabili al lavoro, minorenni, studenti o sono obbligati a casa per occuparsi di un famigliare a carico. Chi può lavorare è obbligato a sottoscrivere un patto per il lavoro, e a seguire un percorso di reinserimento a cui avrebbero dovuto contribuire i famigerati “navigator”. Anpal sottolinea che anche chi rientra in queste liste non ha un profilo semplice: la maggior parte non lavora da almeno tre anni. E tra chi invece un contratto lo ha ottenuto, solo uno su dieci ha lavorato per almeno 18 mesi.

 

Ma ciò non giustifica il fallimento della strategia del ministero del Lavoro. È ancora l’Anpal a pubblicare un numero che non lascia spazio a dubbi: del milione di beneficiari chiamati a trovare un lavoro, meno della metà – in tre anni dall’introduzione – è stato “preso in carico”. Un’espressione tecnica che significa aver avviato il percorso di accompagnamento al lavoro, con la sottoscrizione del patto per il lavoro e gli incontri di orientamento e di ricerca di un nuovo impiego. Ciò significa che centinaia di migliaia di persone non si sono mai presentate ai centri per l’impiego, né sono state contattate.

 

Il governo aveva pure tentato di riformare il reddito di cittadinanza nell’ultima legge di bilancio. Il ministero del Lavoro aveva messo in piedi una commissione di esperti, guidata dalla professoressa Chiara Saraceno, per proporre dei miglioramenti. Ma di tutto ciò è rimasto poco o nulla. Il dibattito si è sempre fermato alla questione dei truffatori e a quella degli svogliati, con un approccio moralistico. E secondo la maggior parte degli esperti non si sono toccate le vere vulnerabilità del reddito di cittadinanza, prime su tutte la scarsa tutela delle famiglie numerose (quelle più soggette alla povertà, secondo Istat) e il disincentivo alla ricerca di un’occupazione (nuova o migliore). Il premier Mario Draghi aveva centrato perfettamente il tema nella conferenza stampa di presentazione della legge di bilancio: “laddove accetti l’offerta di lavoro, il percettore del Reddito perderebbe tutto il suo sussidio, con un’imposta negativa del 100 per cento. D’ora in poi invece questa imposta sarà graduata in modo tale che il percettore abbia incentivo ad accettare un’offerta di lavoro”. Sebbene possa sembrare complicato, in realtà si tratta di un concetto semplice: se un beneficiario del reddito cittadinanza che riceve 780 euro e che non lavora trova un nuovo impiego pagato 800 euro netti al mese, il suo lavoro e la sua fatica saranno ricompensati con un misero aumento di 20 euro al mese. Questo perché per avere lo stipendio dovrà rinunciare del tutto al reddito di cittadinanza. Questa è un’imposta negativa del 100 per cento. Se invece l’imposta scendesse a 80 o 60 per cento, il beneficiario continuerebbe a incassare una parte di sussidio, ma sarebbe incentivato a trovare lavoro.

 

Un intento che però non si è mai trasformato in realtà e non è mai entrato nelle bozze della legge di bilancio. Nonostante da parte di tutte le istituzioni, nazionali e internazionali, siano arrivati calorosi incoraggiamenti ad andare in questa direzione. L’ultima quella del Fondo monetario internazionale, che nella sua più recente analisi sul nostro paese vede di buon occhio l’introduzione di un sussidio contro la povertà, ma “per evitare di incentivare una dipendenza dal welfare e disincentivare la ricerca di un lavoro, il tasso di riduzione degli aiuti di fronte a un salario dovrebbe essere graduale”. E allo stesso tempo l’Fmi scrive che la soglia degli assegni – in media 586 euro a famiglia, che per un single senza reddito può arrivare a 780 – è troppo alta per il tenore di vita.

 

I nodi sul reddito di cittadinanza sono tutti sul tavolo. Ocse, Fmi, Commissione europea, Ufficio parlamentare di bilancio, Banca d’Italia e Istat hanno già da tempo sottolineato cosa c’è che ancora non funziona. Eppure la politica non si è mai mossa sul serio per spendere al meglio i quasi 9 miliardi di soldi pubblici e riuscire ad aiutare i veri poveri. E una campagna referendaria polarizzante sulla sua abolizione potrebbe non essere la via migliore per riuscirci.

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