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Basteranno le sanzioni a fermare i carri armati e i missili russi in Ucraina?

Stefano Cingolani

La stretta possibile con l’embargo sul gas e lo spettro del default di Mosca. La battaglia del grano e quella dei chip. Cronache e scenari dell’altra guerra che l’occidente sta combattendo contro il nuovo zar. E che ora può vincere

Autarchia, chiudere la fortezza russa, è questa la contro-sfida di Vladìmir Putin alle sanzioni occidentali. Nessuno, nemmeno zar Vlad, può sapere se avrà successo, a Benito Mussolini in Italia non è riuscita, e la Russia oggi è integrata nel mercato mondiale ancor più dell’Italia fascista. Un embargo raramente ha fatto cadere da solo una dittatura e la cortina di carta moneta calata dopo l’invasione dell’Ucraina lascia ancora molte, troppe maglie aperte.

     

A un mese di distanza, come sta la Russia? Non è facile dare una risposta perché poco sappiamo di quel che succede nel paese, il ritiro dei corrispondenti stranieri ha contribuito a inaridire l’informazione lasciandola in mano alla propaganda. Si possono solo interpretare i messaggi e oggi non ci sono più i cremlinologi di una volta. Vediamo che gli oligarchi cercano di mettere al sicuro i loro yacht e le loro ville, ma sembra che a Mosca, a San Pietroburgo, a Novgorod per non parlare dell’immensa Siberia, la vita scorra come se niente fosse. La Borsa ha riaperto anche se solo per i russi e i titoli dei gruppi energetici e minerari hanno fatto un balzo all’insù. I supermercati non sono vuoti, non ancora. La Banca centrale ha abbastanza dollari per onorare i debiti contratti con l’estero. Il rublo resta debole, però la caduta in picchiata è finita. Far pagare petrolio e metano in rubli, se riesce, finirà per portare altra valuta pregiata nelle casse dello stato con la quale comprare le merci essenziali: una sorta di scambio, un oil for food o un oil for life se vogliamo, spostando in avanti per quanto è possibile il default che riporterebbe la Russia al 1998, quando non vennero rimborsati i debiti allora in rubli o, secondo i più pessimisti, al 1917, quando Vladimir Il’ich Ul’janov detto Lenin lanciò il suo ukaz: non paghiamo né in rubli né in sterline ancor meno in marchi.

  

Intanto uno dei maggiori gruppi siderurgici, Severstal dell’oligarca Aleksej Aleksandrovich Mordašov, è sull’orlo del crac perché non riesce a rimborsare la rata in scadenza del suo debito estero. Molti osservatori occidentali, economisti, centri studi, banche, società di rating, prevedono che il momento della verità arriverà presto, con un’inflazione attorno al 20 per cento e una caduta del pil che varia, a seconda dei modelli, tra il 6 e il 15-17 per cento: in due anni il prodotto lordo tornerà al 2009 quando scoppiò la crisi finanziaria mondiale. Putin sta cercando scappatoie, chiede aiuto alla Cina o all’India, conta sulle forniture di paesi amici e clienti o che non intendono seguire gli Usa e l’Europa; in Asia, Africa, America Latina ce ne sono molti. Un mese è troppo poco per valutare l’impatto delle sanzioni: alcune hanno effetto immediato come il blocco del sistema Swift, altre richiedono tempo; alcune sono dirette come quelle sugli oligarchi, altre indirette e colpiscono la catena delle forniture. Ci vorrà una nuova stretta, attaccando direttamente la spina dorsale del paese, la ragnatela di tubi che lo collega all’Europa e all’Estremo Oriente. 


    

   

Maximilian Hess del Foreign Policy Research Institute chiama le cose con il loro nome: “E’ in corso una guerra economica contro una guerra militare”. E’ guerra delle valute, guerra dei prezzi, guerra dell’energia. Se fosse ancora vivo, Carl von Clausewitz dovrebbe aggiornare il suo trattato. Quanto a Sun Tsu, punto di riferimento della strategia cinese, rischia di essere spodestato da un modo di combattere che assomiglia più all’Orda d’oro di Tamerlano che ai sofisticati generali-mandarini. Putin è passato a un attacco massiccio impiegando gran parte delle sue risorse tanto che gli mancano i soldati e deve prolungare la leva, spara missili che valgono milioni di dollari, destinati a tiri di precisione, come se fossero bombe da far cadere a pioggia colpendo bersagli civili, spesso a caso. Tutto questo ha un costo anche finanziario ed è qui che l’embargo occidentale vuole incidere.

  

L’Institute of International Finance, associazione mondiale di banche e istituzioni finanziarie, ha pubblicato un mese fa uno studio nel quale analizza le tre fasi delle sanzioni: la prima, più blanda, nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, la seconda dal 2017 al 2021, condotta praticamente in solitario dagli Stati Uniti colpendo gli oligarchi, il petrolio, la sicurezza cibernetica, i settori tecnologici e della difesa. Nel 2018 è finita nel mirino la Rusal e ha colpito il mercato russo dell’alluminio spezzando la catena dell’offerta in particolare verso l’Europa. Gli Usa hanno attaccato anche il progetto Nord Stream in polemica aperta con il governo tedesco.

  

La guerra del gas e il colore dei soldi. La chiusura dei rubinetti del gas vorrebbe dire per Mosca rimpiazzare in brevissimo tempo ingenti flussi di moneta. E l’Ocse stima una caduta del prodotto lordo dell’1,4 per cento in Europa come effetto del conflitto

  

Angela Merkel ha continuato per la sua strada, Olaf Scholz dopo l’invasione dell’Ucraina ha bloccato tutto. E’ cominciata così la terza fase, la più dura. Ma sono subito emersi molti buchi: grandi imprese occidentali, ma soprattutto europee e italiane continuano a operare in Russia, alcune come se nulla fosse.  Qualche nome? Ce n’è per tutti. Auchan, Leroy Merlin, BP, Total, Pirelli, Unicredit, Stellantis, Luxottica, Philip Morris, Halliburton: il catalogo è questo, e c’è molto altro. Alcune banche, come la francese Société Générale, hanno fatto sì che le loro controllate russe operino ormai solo come aziende nazionali. La Renault che produce la Dacia a Togliattigrad ha deciso di interrompere le attività su pressione di Emmanuel Macron (lo stato francese è l’azionista di riferimento). Tra le scappatoie non va trascurata la potente mafia russa. Sarà lei l’intermediaria di ultima istanza con i paesi che non aderiscono alle sanzioni, con quelli che non le rispettano e soprattutto con il mercato parallelo che consente di utilizzare i dollari sotto il naso della Federal Reserve. Il Cremlino potrebbe trovare vantaggioso un patto con la Organizacija. Anche per tappare tutti questi buchi, dobbiamo aspettarci una escalation delle sanzioni.

  
Il giro di vite

Peter van Bergeijk, professore di Economia internazionale all’Università Erasmus, ha messo insieme quaranta esperti da tutti i continenti per analizzare le sanzioni comminate nell’ultimo decennio, i loro successi e i loro fallimenti. Il libro che ha curato, “Research Handbook on Economic Sanctions”, analizza con diverse metodologie quantitative e qualitative le applicazioni di boicottaggi, embargo, misure specifiche riguardanti commerci, viaggi, finanza concentrandosi su alcuni casi eclatanti: Cuba, Corea del Nord, Iran e Russia fino al 2021. “Emerge una differenza di opinioni sulla strategia migliore –  spiega van Bergeijk – Una scuola di pensiero ritiene che sia preferibile cominciare con piccole misure e aumentare la pressione, perché questo rende ogni passo successivo più credibile. Un’altra scuola dice che bisogna colpire subito in modo energico prima che l’economia abbia il tempo di prepararsi e assorbire lo choc. Io propendo per questa seconda scuola, infatti le sanzioni del 2014 contro la Russia non hanno funzionato perché blande e hanno dato a Putin la possibilità di reagire. Nemmeno le sanzioni comminate dopo l’invasione dell’Ucraina sono davvero efficaci, il settore energetico per esempio continua a funzionare su larga scala come nulla fosse”. 

  
Ma un eventuale embargo sul gas russo non avrebbe un impatto disastroso sull’Europa e sull’economia mondiale? Jon Danielsson, Charles Goodhart, Robert Macrae riconoscono che sarebbe l’innesco di una crisi più ampia finora evitata. In un articolo su Vox azzardano un parallelo con il 1914 quando le sanzioni prepararono la Grande guerra. Anche allora il sistema finanziario era globalmente integrato, quindi quella crisi ha molto da insegnarci, sostengono gli autori, ma ci sono differenze importanti, la prima è che oggi circola una quantità enorme di moneta liquida iniettata dalle banche centrali e dai governi per impedire che la pandemia si trasformasse in depressione economica. Inoltre i paesi direttamente belligeranti, cioè la Russia e l’Ucraina, rappresentano una piccola frazione del commercio internazionale anche se l’Europa occidentale oggi dipende più di allora dagli scambi esteri.

 

Nel 1914 sia gli Imperi centrali sia gli alleati dell’Intesa continuarono a far transitare le monete attraverso paesi neutrali, soprattutto la Svizzera. Oggi stanno emergendo nuovi intermediari come la Cina o le criptovalute. Ciò finirà per erodere, è vero, il potere finanziario dell’occidente, ma nello stesso tempo introduce una pluralità che alla lunga diversifica e riduce i rischi sistemici. Il paradosso, insomma, è che la guerra economica è distruttiva nel breve periodo, ma a lungo termine favorirà la diffusione di anticorpi. Nel 1914 tutti gli oneri ricaddero sulle banche che avevano prestato ai paesi in conflitto, oggi non è così, inoltre i cuscinetti creati dopo il crac del 2008 hanno reso più solide le banche, anche quelle occidentali che operano in Russia e debbono tagliare i loro legami o comunque ridurre la loro esposizione verso gli aggressori. Chiudere i rubinetti del gas non conviene a Mosca che dovrebbe rimpiazzare in brevissimo tempo ingenti flussi di moneta. Putin ha cominciato quello che gli americani chiamano chicken run come nel film “Gioventù bruciata”: due ragazzi si lanciano simultaneamente con le loro auto verso un burrone, se sterzano fanno la figura dei polli, se uno sterza mentre l’altro continua, fa la figura del coniglio, se entrambi vanno avanti per mostrare chi è più impavido, muoiono. I tre economisti sono convinti che le autorità politiche e monetarie americane ed europee abbiano imparato abbastanza da un secolo di crisi e conflitti e non commetteranno gli errori del passato. Incrociamo le dita. Intanto si fanno i conti sull’effetto boomerang: l’Ocse calcola una caduta del prodotto lordo dell’1,4 per cento come conseguenza della guerra, sono stime approssimate per difetto, paesi come la Germania e l’Italia soffriranno di più, secondo molti economisti il pil italiano aumenterà a mala pena di due punti percentuali in termini reali, altri prevedono crescita zero alla fine dell’anno.

  

I dubbi sull’efficacia politica non solo economica delle sanzioni restano. Quelle contro l’Italia dopo l’invasione dell’Etiopia nel 1936 non fecero cadere il fascismo né indebolirono il mito di Mussolini, tuttavia ebbero una serie di ricadute negative sull’industria, in particolare quella militare. L’embargo americano contro il Giappone dopo l’invasione della Cina nel 1937 non minò il militarismo nipponico, anzi lo spinse verso l’asse con Berlino e Roma. Fino a Pearl Harbor. Il contenimento dell’Unione Sovietica non impedì gli affari delle imprese occidentali nel petrolio o nelle automobili (si pensi alla Fiat a Togliattigrad, un investimento dal chiaro contenuto politico e autorizzato dal presidente americano Lyndon Johnson). Finché l’Urss non è implosa per l’insostenibilità del “modo di produzione socialista”. E che dire dell’Iran? La teocrazia degli ayatollah è ancora viva, sostenuta anche dai paesi europei che non hanno applicato o hanno bypassato le sanzioni americane. Tuttavia l’ultimo giro di vite ha avuto un drammatico impatto economico: gli scambi con l’Unione europea sono crollati del 70 per cento e l’export iraniano verso l’Europa è praticamente bloccato. Una cosa è certa, la guerra economica è di lunga durata e lo sarà ancor di più quella contro la Russia, segnata da una serie di grandi battaglie campali.

  

La battaglia del rublo

Riuscirà Elvira Nabiullina la presidente della Banca centrale, a pagare le prossime scadenze dei debiti contratti con l’estero? Il 16 marzo ha passato 66 milioni di dollari alla JP Morgan che li ha girati a Citigroup. Le passività totali ammontano a 478 miliardi di dollari, 135 miliardi da restituire entro l’anno. La Russia ha 15 obbligazioni internazionali in circolazione con un valore nominale di circa 40 miliardi di dollari. Prima della crisi ucraina, circa 20 miliardi erano detenuti da fondi di investimento e gestori esteri. Il prossimo test è un pagamento di 102 milioni di dollari proprio oggi 28 marzo, poi il 31 c’è una scadenza di 447 milioni da onorare in dollari. Il suo più grande esborso quest’anno ammonta a 2 miliardi di dollari ed è previsto per il 4 aprile. Se ce la fa, allora ha disinnescato la mina almeno per il momento. Quanti dollari ci sono ancora nel caveau della Banca centrale? La presidente artefice della strategia neo mercantilista, è sull’orlo di una crisi di nervi e ha lanciato un clamoroso grido d’allarme. Finora ha manovrato con grande capacità anche se il rublo è piombato sotto quota 100 con il dollaro, un livello dal forte valore propagandistico. La valuta russa era salita a 150 ai primi di marzo, adesso è calcolata tra 93 e 94 per dollaro.

  

I flussi finanziari a Mosca: un lungo processo di de-dollarizzazione del sistema. I semiconduttori, da tempo un punto debole del complesso militar-industriale russo. Il palladio e il neon che servono. Dalla Russia e dall’Ucraina arriva ogni anno il 25 per cento del grano mondiale. Il ruolo di  Elvira Nabiullina e degli oligarchi

   

Sono stime fittizie: il rublo non viene contrattato ufficialmente sui mercati esteri. Chi sostiene che la Banca centrale russa ha sostenuto la valuta nazionale deve spiegare dove e come è intervenuta, su quali mercati, da chi ha comprato, forse dalle aziende a loro volta indebitate in dollari, come Gazprom, o dalle banche i cui legami con l’estero sono recisi?

 

Dal 2014 Putin ha messo fieno in cascina, aumentando le operazioni negli ultimi mesi. E’ stato Mario Draghi a sottolineare che guardando i flussi finanziari si poteva già capire quel che covava nella mente di zar Vlad. La moneta non è solo un numerario ma è anche uno strumento politico, soprattutto se in mano ai dittatori. La Banca centrale ha accelerato la progressiva de-dollarizzazione del sistema comprando soprattutto euro, yen e renminbi (yuan). Anche l’introduzione del rublo digitale ha l’obiettivo di accelerare questo processo. Dal 2016 le riserve sono aumentate da 377 a 498 miliardi di dollari e la quota dovuta ai paesi aderenti alla Nato è scesa dal 93 al 46 per cento, le riserve in dollari e titoli del Tesoro americani addirittura al 16 per cento. E’ aumentato anche il peso dell’oro: nei forzieri ci sono 2.300 tonnellate, poco meno dell’Italia che con 2.451 tonnellate è al terzo posto dopo Stati Uniti e Germania. In ogni caso sono raddoppiate dopo l’annessione della Crimea e quintuplicate dal 2007. Il loro valore è circa 140 miliardi di dollari, ma gli Stati Uniti, la Ue e tutti i paesi del G7 ne hanno bloccato la vendita. Come farà l’abile Nabiullina a trasformare i lingotti in denaro contante?

 

Il governo russo ha imposto dure misure di austerità nel tentativo di ridurre il debito pubblico e nazionalizzarlo vendendo titoli soprattutto ai russi. I suoi sforzi hanno avuto successo anche a costo di un basso ritmo di crescita. Quando è scoppiata la pandemia lo stato ha aumentato in modo massiccio l’indebitamento senza fare grande ricorso a prestiti esteri. E lo scorso anno il bilancio pubblico è tornato in attivo. Nel frattempo la Russia ha accumulato surplus della bilancia dei pagamenti, con un cambio di marcia proprio nei mesi precedenti l’attacco all’Ucraina per avere un cuscinetto sufficiente ad ammortizzare l’impatto delle sanzioni ampiamente previsto in caso di invasione. Sono queste le operazioni alle quali Draghi faceva riferimento. Più difficile è tagliare il debito in dollari (209 miliardi circa la metà del totale) come abbiamo visto anche perché s’aggiunge il debito privato: si tratta di depositi esteri per 200 miliardi di dollari: il 21 per cento in capo alle famiglie, il 26 per cento a imprese non finanziarie che fanno per lo più capo al governo, il resto tra banche pubbliche e private. Un altro segnale che Putin si stava preparando all’impatto delle sanzioni è stata la creazione di infrastrutture finanziarie alternative allo Swift con il sistema chiamato Spfs. Tuttavia è riuscito a gestire appena un quinto del traffico domestico. Nemmeno il circuito di pagamenti Mir è in grado di sostituire Visa e Mastercard (finora è utilizzato prevalentemente dagli uffici turistici russi per vacanze nazionali). Gli sforzi di collegarsi a Cnaps la versione cinese dello Swift per il momento non hanno avuto successo.

 

Il default è uno spettro che non riguarda solo le finanze pubbliche. Quel che sta accadendo a Severstal, il gruppo siderurgico di Aleksey Mordašov uno degli oligarchi sanzionati, apre una finestra sulla onorabilità dei debiti privati. Il colosso dell’acciaio ha registrato 4,07 miliardi di dollari di utile nel 2021, quattro volte il dato di un anno prima, eppure non ha pagato la cedola da 12,6 milioni di dollari alla scadenza del periodo di grazia. La società dice di aver effettuato il bonifico, ma il denaro non è arrivato ai creditori. Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, questo tipo di pagamenti sarebbero stati elaborati dalle stanze di compensazione internazionali quali Clearstream (in mano a Deutsche Börse) o Euroclear (fra i soci vi sono Euronext ed Lse), che debbono confermare la proprietà degli asset. Tuttavia, entrambe le clearing houses hanno annunciato l’interruzione delle attività con Mosca. Dunque, l’arma principale per la resistenza finanziaria della Russia resta l’export di energia.

 

La battaglia del gas

Il settore energetico fornisce ogni anno allo stato una somma equivalente al 6 per cento del prodotto interno lordo. Meno di un quarto soltanto viene attaccato dalle sanzioni, il resto deriva dalle tasse sulle estrazioni e sulle concessioni minerarie. Per colpire al cuore la potenza energetica russa, dunque, bisogna fermare gli scambi. E torniamo così al dilemma di partenza. Se le esportazioni venissero bloccate domani il paese piomberebbe in una immediata crisi della bilancia dei pagamenti perché l’export energetico copre per l’85 per cento il valore delle importazioni. Anche un embargo parziale sarebbe molto pesante finanziariamente per la Russia. Potrebbe vendere di più ad altri paesi, soprattutto alla Cina, per il petrolio è facile, il gas ha bisogno di grandi infrastrutture. Sono in costruzione due metanodotti che dalla Siberia raggiungono la Cina, ma le distanze sono immense, ci vuole tempo e danaro. Il primo flusso di gas è previsto tra un paio d’anni. 

 

Nei pasticci seri si trova l’Europa che, secondo i calcoli del think tank Bruegel di Bruxelles, potrebbe restare a secco nel gennaio del prossimo anno perché non ha abbastanza riserve in stock né sufficienti alternative a breve termine. Roberto Cingolani, ministro della Transizione energetica, ha detto che ci vorranno tre anni per sostituire il metano che viene dalla Siberia, questo è vero per l’Italia, dipendente per il 43 per cento dei suoi consumi energetici, e nella stessa situazione si troverebbe la Germania, due paesi che stanno gettando acqua sul fuoco degli entusiasmi sanzionatori. Ancor peggio sarebbe per molti paesi dell’est Europa. Gli Stati Uniti hanno annunciato che forniranno 15 miliardi di metri cubi di gas liquefatto entro la fine del 2022; non basteranno, solo l’Italia consuma  70 miliardi di metri cubi l’anno (il 43 per cento dalla Russia), e in ogni caso non ci sono abbastanza rigassificatori, che non si costruiscono in pochi mesi. Secondo Bruegel, quindi, sarà necessario affrontare l’inverno bruciando carbone, aumentando le fonti rinnovabili per quel che è possibile, riducendo i consumi di gas, ricorrendo di più al nucleare. La Germania dovrà fare marcia indietro sul nucleare, anche se il governo è contrario, soprattutto sotto la pressione dei Verdi.

 
Putin insomma ha il coltello dalla parte del manico? Ogni metro cubo di gas comprato gli fa un favore al cubo? Il regalo ammesso che ci sia è per il momento solo contabile. Entreranno rubli in cassa, ma come abbiamo visto non potranno essere spesi se non all’interno. Aumentano le riserve che sono congelate. Tutti i produttori e gli esportatori di materie prime e di idrocarburi stanno accumulando ingenti profitti con i prezzi saliti così in alto. Un grande gruppo europeo, americano, saudita, italiano, può depositarli in una qualsiasi banca. Gazprom deve convertire i dollari in rubli presso la Banca centrale russa la quale, però, non può utilizzarli se non per pagare i debiti o per girarli a qualche operatore che sfugga più o meno legalmente alle sanzioni per comperare prodotti necessari non sottoposti a embargo oppure scambiati sul mercato nero. “Insomma, è una partita di giro – spiega off the record un banchiere – Se passa l’ukaz di Putin l’Eni continuerà a pagare in dollari, ma alla Banca centrale russa anziché a Gazprom che poi riceverà rubli dalla signora Nabiullina a un tasso di cambio politico. In teoria la domanda crescente dovrebbe rafforzare la valuta, ma i rubli sul mercato non ci sono. La Russia comunque non uscirebbe dalla trappola delle sanzioni”. La battaglia del rublo e quella del gas sono, dunque, strettamente legate, e rimandano ad altri scontri campali.

 
La battaglia dei chip

La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc), il principale produttore mondiale di semiconduttori, ha annunciato che rispetterà le indicazioni americane e fermerà le sue esportazioni verso la Russia. E anche Mosca è fortemente dipendente dai chip per i computer, gli smartphone e le macchine da guerra. I semiconduttori sono da lungo tempo un punto debole del complesso militar-industriale russo e il bando pone una seria minaccia alla possibilità di accedere a sistemi d’arma avanzati. Gli Stati Uniti hanno un piccolo ruolo nella manifattura dei chip, ma sono fondamentali nella loro tecnologia sulla quale le aziende incassano elevate royalty. Il 79 per cento dei chip russi sono forniti dalla Cina, però sono di bassa qualità e inservibili per applicazioni avanzate. La decisione della Tsmc, dunque, rappresenta un duro colpo anche per l’esercito di Putin. Le aziende occidentali, inoltre, si sono preparate fin dal 2014 all’impatto di una ritorsione che colpisce due materiali cruciali. Per produrre chip sono fondamentali il palladio, ottimo catalizzatore, e il neon, gas essenziale per alimentare i laser che incidono i modelli. Dalla Russia proviene oltre il 40 per cento della fornitura mondiale di palladio (seguita dal Sudafrica) mentre l’Ucraina produce il 70 per cento di neon. L’intero mercato mondiale oggi è bloccato. L’industria del neon ucraina è stata costruita in modo da beneficiare dei gas ottenuti come sottoprodotto della produzione di acciaio della Russia. Le acciaierie russe che hanno l’impianto per catturare il gas lo imbottigliano per poi rivenderlo, occorre però che sia purificato e liberato da altri gas e questo è il mestiere in cui si è specializzata la Cryoin che rifornisce aziende in Europa, Giappone, Corea, Cina e Taiwan e soprattutto Stati Uniti. Cyoin è a Odessa e dal fatidico giovedì 24 febbraio, giorno dell’invasione russa, è ferma. Per Mosca impadronirsi dell’azienda ha un’importanza notevole forse ancor più del valore simbolico di aver conquistato la perla del Mar Nero. 

  

I chip sono dunque fondamentali per l’industria moderna della difesa. Il successo di droni come quelli turchi usati dagli ucraini e dotati di microprocessori in grado di individuare i punti scoperti dei carri armati, dimostra la loro portata strategica. Quanto è moderno e aggiornato l’esercito di Putin? Il segreto che circonda le tecnologie militari e la logistica impedisce di avere informazioni davvero accurate. Una delle maggiori difficoltà sembra venire dalla scarsità di camion, ma questo ha poco a che fare con i chip. Non è così per il missile Kalibr, che un video moscovita ha mostrato nel suo viaggio di morte da una corvetta verso la terraferma. E’ un cruise, un missile da crociera che può percorrere fino a 2.600 chilometri. Il suo sistema di guida e atri moduli fondamentali contengono circa il 60 per cento di apparati elettronici importati, secondo Breaking Defence il magazine britannico più informato sugli armamenti. Tutte queste componenti sono comprese nella lunga lista di sanzioni. Quanti Kalibr Mosca può ancora lanciare? Più in generale, la Russia ha armamenti a sufficienza o anche per questi deve ricorrere alle importazioni? Il costo materiale della guerra è superiore alle attese, è difficile trovare pezzi di ricambio, persino l’industria energetica è in difficoltà scrive il Wall Street Journal. Se Severstal fallisse anche l’intera siderurgia ne sarebbe colpita. Tutto è in movimento molto più rapidamente di quanto possiamo immaginare.

 

 

La battaglia del grano

Dalla Russia e dall’Ucraina arriva ogni anno circa il 25 per cento del grano mondiale e i due paesi sono enormi produttori anche di mais, orzo e altri cereali. Per l’Italia non sono fondamentali: l’export russo-ucraino pesa per il 6 per cento sul grano tenero e il 15 per cento sul mais, ma a preoccupare è l’effetto domino sul mercato mondiale dal quale arriva il 60 per cento del grano utilizzato in Italia. Secondo l’Onu, 45 paesi africani importano almeno un terzo dei cereali che consumano dall’Ucraina e dalla Russia e 18 di questi ne importano almeno il 50 per cento. Questi paesi includono Egitto, Congo, Burkina Faso, Libano, Libia, Somalia e Sudan. In particolare l’Egitto, con i suoi 102 milioni di abitanti, è il più grande importatore al mondo e dipende dai due paesi in conflitto per l’85 per cento dei suoi consumi. L’impatto maggiore ricade sul grano tenero (quello duro è prodotto soprattutto in Canada e in Italia). Le contro sanzioni russe hanno bloccato l’export di cereali e oli (di girasole per esempio), ma in ogni caso la guerra ha spezzato l’intera catena. Il braccio di ferro tra Russia e occidente se considerato come una sfida bipolare va a svantaggio di Mosca, ma se visto in tutte le sue interdipendenze è in grado di provocare sconquassi tali da frantumare l’intera ragnatela della globalizzazione. 
Difficile capire oggi chi vince, anche perché dipende dalla capacità di riconvertire colture e produzioni, oltre che aumentare l’efficienza e la produttività agricola. Per restare all’Italia, l’olio d’oliva e quello di altri semi dovranno rimpiazzare quello di girasole. Il mais farà un balzo a tutto vantaggio dell’America. L’olio di palma avrà un boom che favorisce i paesi tropicali. Alla fine la Russia potrebbe trovarsi con un sovrappiù di scarso valore economico. In generale quando si parla dell’impatto di choc esterni, come le sanzioni, i modelli che proiettano meccanicamente il presente verso il futuro senza tener conto del gioco di azioni e reazioni, finiscono per sbagliare le previsioni. Negli anni 70 autorevoli pensatoi sentenziarono che il petrolio sarebbe salito alle stelle in modo permanente e saremmo rimasti presto a secco. Dagli anni 80 il greggio divenne abbondante a buon mercato e l’Opec perse il suo potere di ricatto. Ancor più difficile divinare il futuro quando è in ballo il fattore umano. 

  
La battaglia degli oligarchi

Chi avrebbe mai immaginato che, colpito duramente dalle sanzioni,  Roman Arkadievich Abramovich, lo zar del Chelsea, il cocco dell’upper class londinese trasformato in reietto, venisse sostenuto dal presidente ucraino? Eppure è proprio Volodymyr Oleksandrovych Zelensky a chiedere di non infierire su di lui perché può essere molto utile nel momento in cui si arriverà a un negoziato. Se ci si arriverà. Abramovich è un trait-d’union con Israele (ne possiede il passaporto) così come Mikhail Fridman che è pure nato e vissuto in Ucraina a Leopoli, e adesso ha preso cautamente le distanze da Putin. Poi c’è Elvira Nabiullina che ha minacciato di dimettersi, disperata per la catastrofe economica alla quale dovrebbe fare argine. Alcuni (ancora pochi) esponenti della nomenklatura hanno mollato lo zar, come Anatolij  Chubais l’uomo delle privatizzazioni con i voucher (insieme a Egor Gajdar morto nel 2009) nella caotica, ma anche sfortunata era Eltsin. Allora gas e petrolio crollarono portando al crac l’intera Russia tra il 1998 e il 1999, aprendo le porte a Putin che proprio Chubais presentò a Eltsin. La struttura del potere putiniano è complessa e può essere rappresentata da una serie di cerchi concentrici, ma a geometria variabile, infatti quello che oggi è più vicino al centro domani può finire più lontano. Anche gli oligarchi sono diversi, divisi tra chi si è arricchito negli anni 90 poi ha stretto un patto con il nuovo uomo forte (come Abramovich o Fridman) e chi deve tutto a Putin come Igor Sechin e Aleksej Miller che guidano Rosneft e Gazprom.

 

Petr Aven, il partner di Fridman – insieme hanno creato l’Alfa group negli anni 90 investendo sul petrolio e hanno portato in Russia la BP nel 2003 – si lamenta con il Financial Times sul suo futuro: “Mi sarà ancora consentito avere una donna delle pulizie e un autista?”, piagnucola protestando che le sanzioni contro di lui sono ingiuste, che ha mollato nel 2013 ogni partecipazione in Rosneft, il colosso petrolifero che zar Vlad ha affidato al suo camerata del Kgb. Ha un visto per gli Usa e un passaporto lituano, ma vuole restare a Londra anche se Boris Johnson gli ha dato solo tre settimane per sloggiare. Lo avevano ammesso alla Royal Academy e alla Tate Gallery: a lui come agli altri Londra aveva aperto tutte le porte, ponti d’oro sul Tamigi, tappeti rossi nei palazzi del potere. Protesta contro chi lo considera un burattino di Putin: “Dico solo che va preso sul serio, è il presidente della Russia, e questa è la cultura della Russia”. Quella Russia che, dice il nuovo zar, deve essere purificata distinguendo “i veri patrioti dalla feccia e dai traditori”. Ma di questi “moscerini da sputare” ci sarà bisogno se e quando Putin cadrà o forse anche per farlo cadere dall’interno.
Probabilmente non vedremo una notte del Gran Consiglio, né quell’effetto Gheddafi che angoscia i sonni di zar Vlad, ma nella storia russa gli autocrati sono morti o per mano di terroristi e rivoluzionari o per una congiura dei boiardi. In fondo fu un colpo di stato, sia pur fallito, a travolgere anche Mikhail Sergeevich Gorbaciov. Quante divisioni ha Putin? E quante munizioni finanziarie, politiche e militari gli restano? Solo lo sviluppo del conflitto potrà rispondere, ma a una questione di fondo dovremo rispondere innanzitutto noi occidentali: davvero l’autocrazia (o la la democratura, la sua versione di moda) è il “destino” della Russia (ammesso che esista il destino degli individui, dei popoli e degli stati)? Stalin voleva creare l’Homo sovieticus, poi abbiamo capito che era un uomo come gli altri e voleva libertà, benessere, democrazia. La stesso vale per l’Homo putinianus.
 

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