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Disuguaglianza e mobilità sociale, i chiaroscuri dell'Italia

Gianluca Violante

Una società che offre ampie opportunità di crescita intergenerazionale, per tutti, possiede un antidoto efficace contro le sperequazioni: quella italiana lo è, ma solo parzialmente. Occorre investire, e farlo a bene, a partire dalla scuola. Uno studio su due miglioni di famiglie, tra risultati attesi e grandi sorprese

La diseguaglianza dei redditi e della ricchezza è uno temi principali del dibattito economico sia in Europa che negli Stati Uniti. Dall’inizio degli anni ‘80 la forbice tra ricchi e poveri è aumentata costantemente negli Stati Uniti; e anche in Italia se ne è’ registrato un incremento, sebbene minore. La diseguaglianza è nociva alla società quando la ricchezza ha origine da posizioni di privilegio e di rendita, invece che dal successo meritato in un contesto competitivo privo di favoritismi. Inoltre, un eccessivo divario di risorse tra cittadini genera inevitabilmente tensioni sociali che creano terreno fertile per governi populisti, i quali, in nome dell’espropriazione delle élite, finiscono per danneggiare irreparabilmente l’economia. Il caso del Venezuela è emblematico. 

 

La figura illustra la variazione geografica nella probabilita' che un figlio nato in una famiglia con reddito nel quintile (20%) più basso della distribuzione nazionale da adulto raggiunga il quintile (20%) piu' alto della distribuzione.

 

Nonostante ciò, tollerare un certo livello di diseguaglianza dei redditi è auspicabile, addirittura necessario. È il differenziale di reddito tra laureati e non che genera gli incentivi a investire in istruzione; è il gap salariale tra chi merita la promozione e chi no che produce gli stimoli a eccellere nel proprio mestiere; è il divario di profitto tra chi investe e chi no che incoraggia gli imprenditori a fare ricerca, adottare nuove tecnologie nella propria impresa e assumere i migliori sul mercato del lavoro. Esiste pertanto una diseguaglianza “cattiva” e una “buona”, ed è essenziale distinguere tra le due. Ma ciò non è facile, e il dibattito su quale sia il livello ideale di diseguaglianza in una società è complesso e comporta giudizi di valore necessariamente soggettivi.

 

Inoltre, il concetto di diseguaglianza è spesso riduttivo perché, per propria natura, statico: è una fotografia della distribuzione dei redditi in un determinato momento che astrae dal fatto che le famiglie, nel tempo, si muovono dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso all’interno di tale distribuzione. In altre parole, non bisogna mai dimenticarsi della mobilità economica. Uno studio di qualche anno fa del compianto Alberto Alesina insieme a Stefanie Stantcheva, sua collega ad Harvard, dimostra come i cittadini siano molto più disponibili a tollerare alti livelli di diseguaglianza dei redditi in una società dove la mobilità economica è elevata. Se l’ascensore sociale funziona, tutti  hanno l’opportunità di accedere ad alti livelli di reddito, anche chi proviene da famiglie più disagiate; di conseguenza, i ricchi non sono più solo un’élite. Tornando all’Italia, come funziona l’ascensore sociale? Ovvero, quante opportunità hanno i figli di genitori con redditi bassi di scalare la piramide economica? Dare risposta a questa domanda aiuta a comprendere la diseguaglianza in tutta la sua complessità. 

 

In una ricerca pubblicata di recente su una rivista scientifica americana, Paolo Acciari del Mef, Alberto Polo della Bank of England e io abbiamo analizzato la struttura della mobilità intergenerazionale su un campione di due milioni di famiglie italiane nel ventennio 1995-2015, trovando alcuni risultati attesi e altri sorprendenti. Per cominciare, se dividiamo la distribuzione dei redditi in quintili (cinque fasce, ciascuna con lo stesso numero di individui, il 20 per cento), in Italia la probabilità che un figlio cresciuto in una famiglia nel quintile più basso (con reddito familiare sotto i 10 mila euro)  da adulto riesca a raggiungere il 20 per cento più alto (quindi a guadagnare un reddito familiare sopra i 40 mila euro circa – è l’11 per cento. Per contro, la probabilità che un figlio cresciuto in una famiglia nel quintile più alto mantenga questa posizione anche da adulto è il 30 per cento.

 

È evidente, quindi, che sebbene la mobilità verso l’alto esista, le condizioni economiche iniziali sono determinanti. Nel suo insieme, però, l’Italia non appare una società così ingessata come spesso la si caratterizza; il livello di mobilità non è dissimile da quello di altre nazioni europee, pur rimanendo ben al di sotto dei paesi scandinavi. Rispetto agli Stati Uniti, siamo una società che offre più opportunità di ascesa sociale a chi parte da condizioni di povertà, ma ne offriamo meno a chi parte dalla classe media. Disaggregando i dati italiani, si scopre che – a parità di risorse familiari – la mobilità verso l’alto è  più elevata per i figli maschi che per le figlie femmine, a causa della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro; per i primogeniti, forse perché i genitori investono di più in loro rispetto ai figli nati dopo; per i figli di imprenditori e liberi professionisti; e per chi, da adulto, emigra dalla provincia di nascita.  

 

Ma è disaggregando a livello geografico che emergono i risultati più sconcertanti. Il differenziale tra nord e sud è impietoso. In molte province del nord, come Monza-Brianza, Bergamo, Milano, Piacenza, Trento e Modena, la mobilità intergenerazionale dal quintile più basso a quello più alto eccede il 20 per cento, una quota comparabile a Svezia e Danimarca. Per contro, in alcune province del sud, come Ragusa, Nuoro, Cosenza, Crotone e Barletta, solo il 7 per cento dei figli nati nel quintile più basso riescono a raggiungere quello più alto da adulti. Dal nostro studio emerge che sono tre i principali fattori che spiegano il gradiente nord-sud: migliori condizioni del mercato del lavoro; maggiore stabilità familiare per i figli (meno separazioni e divorzi);  migliore qualità della scuola, specialmente quella obbligatoria. 

 

In conclusione, una società che offre ampie opportunità di mobilità intergenerazionale a tutti possiede un antidoto efficace contro la diseguaglianza; quella italiana lo è, ma solo parzialmente. Uno degli obiettivi del Pnrr dovrebbe essere quello di estendere tali opportunità a tutto il paese. La strada da percorrere non è quella della solita pioggia di trasferimenti indiscriminati ma quella, ad esempio, dell’investimento in asili nidi che permettano alle giovani donne di lavorare, in servizi sociali che identifichino velocemente situazioni di criticità familiare, e in un sistema scolastico di eccellenza che faccia da trampolino per tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche.

Gianluca Violante. economista, Princeton University

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