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I vizi ideologici che ostacolano il futuro dell'Italia

Luciano Capone e Carlo Stagnaro

Oltre il Covid c’è di più. Prezzi, energia, rincari, i guai sulla strada della crescita e il rischio dei gilet gialli. Indagine sui nuovi populismi da combattere con urgenza. Tra soluzioni, tabù e sguardi controcorrente sul dopo Quirinale

È tornata l’inflazione e non abbiamo niente da metterci. Anche perché tutto il consenso economico a partire dalle banche centrali, con l’eccezione di qualche economista come Larry Summers, non l’ha vista arrivare. Archiviata l’elezione del presidente della Repubblica, il governo e i partiti della maggioranza dovrebbero dare al rischio di crescita dei prezzi la massima importanza. Non fosse altro perché l’inflazione, storicamente, fa e disfa i risultati elettorali. Il caso forse più famoso è quello delle elezioni americane del 1980, anno in cui negli Usa toccò il picco del 15 per cento. “La recessione è quando il tuo vicino perde il lavoro – scandiva Ronald Reagan in campagna elettorale – La depressione è quando tu perdi il tuo. La ripresa è quando Jimmy Carter perde il suo”. E così fu: l’ex governatore della California espugnò la Casa Bianca e divenne uno dei presidenti più carismatici ed efficaci di sempre. La storia sarà forse più clemente dei suoi contemporanei con Carter. Ma è indubbio che abbia pagato un prezzo salatissimo e che Reagan abbia enormemente beneficiato della politica monetaria rigorista del governatore della Fed, Paul Volcker, che proprio Carter aveva nominato.

Ecco: negli Stati Uniti l’inflazione annualizzata a dicembre ha toccato il 7 per cento e questo preoccupa Joe Biden, terrorizzato dall’idea di essere il nuovo Carter. Nell’Eurozona è più bassa, attorno al 5 per cento, ma anche qui si tratta di una novità assoluta rispetto ai vent’anni di storia dell’unione monetaria. E, in Italia, l’inflazione a dicembre ha toccato il 3,9 per cento su base annua. Come si vede, tre storie molto diverse, ma tre storie parallele. Un altro parallelismo è dato dall’incidenza dei rincari energetici sull’inflazione complessiva. Da soli, essi spiegano più della metà dell’incremento osservato nel Vecchio continente. In Italia, l’inflazione di fondo (cioè al netto delle componenti più volatili: appunto energia e alimentari) a dicembre si assestava attorno all’1,5 per cento.

Illustrazione di Makkox
   

I governi e le banche centrali stanno predisponendo contromisure. In questo articolo partiamo, anzitutto, dalla principale determinante dell’inflazione osservata, cioè l’incremento dei costi dei prodotti energetici. Poi ci concentreremo sulle altre – e per certi versi più importanti – componenti dell’inflazione (la cosiddetta inflazione di fondo, che è un utile previsore di quello che succederà nei prossimi mesi). Ragioneremo sulle possibili soluzioni e sulle cattive idee che l’inflazione sta suscitando, dal controllo dei prezzi ai sussidi indiscriminati. Infine, analizzeremo quali sono i rischi per un paese molto indebitato come l’Italia.

 

L’inflazione energetica

I prezzi dei prodotti energetici sono su una traiettoria preoccupante. Un barile di petrolio Brent costa circa 90 dollari, il triplo del marzo 2020: per trovare un valore simile bisogna tornare al 2014. Il gas naturale ha seguito una curva ancora più inquietante: il Ttf (il valore di riferimento per i mercati europei) si aggira attorno ai 90 euro / MWh, un livello mai raggiunto prima e superato solo dal massimo assoluto del 12 dicembre 2021 (137 euro). A differenza di quello petrolifero, il mercato del gas ha una natura perlopiù regionale: ma anche sulle borse asiatiche si viaggia su livelli analoghi mentre negli Stati Uniti, dove l’offerta è più abbondante, i prezzi sono relativamente elevati per gli standard di quella regione, ma almeno non anomali (circa 20 euro / MWh).

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Prezzi così alti hanno un impatto enorme sulle attività produttive, specialmente quelle a più alta intensità di consumo energetico, come le industrie dell’acciaio, cemento, carta, vetro e ceramica. Ma hanno impatto anche sui costi della logistica e dei trasporti. E, per quanto riguarda il gas, si propagano ai prezzi dell’energia elettrica, anch’essa su livelli record: a gennaio 2022 supera i 200 euro / MWh, mai sfiorato in precedenza se non per periodi di tempo molto limitati. Quali sono le cause di questo fenomeno? Purtroppo ci sono una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali ha almeno una parte di spiegazione strutturale. Per semplificare, si può dire che i rincari dipendono dai fondamentali: cioè da una domanda superiore alle attese e da un’offerta insufficiente.

La prima è legata alla ripresa economica – finora piuttosto rapida – e in qualche modo ha già cominciato a cedere: i segnali di prezzo stanno suscitando la risposta dei consumatori, anche inducendo certi stabilimenti industriali a sospendere o rallentare la produzione (il che, va da sé, pone un’ipoteca sulla ripresa). Dal lato dell’offerta, ci sono invece tanti aspetti. In questo momento, quello singolarmente forse più importante – che può anche aver alimentato comportamenti speculativi – è l’incertezza relativamente all’evoluzione della crisi ucraina. Non è chiaro se e come la situazione potrà sbloccarsi e, se precipitasse in un conflitto, non è chiaro quali conseguenze potrebbe avere sulle consegne fisiche di gas all’Europa (che dalla Russia acquista il 41 per cento del gas di importazione). Circa un quarto del gas russo arriva in Europa attraverso la rotta ucraina.

Poi ci sono ragioni più profonde. E’ verosimile che la Russia, anche al netto della questione ucraina, abbia approfittato della situazione per esercitare pressioni e ottenere lo sblocco del gasdotto Nord Stream 2 (che dovrebbe raddoppiare l’attuale capacità di trasporto su quella rotta, facendo venire meno il valore strategico di Kiev). Ma non si può sottovalutare il fatto che non tutte le cause della scarsità di gas sono esogene all’Europa: nei primi undici mesi del 2021, sono venuti meno 13,8 miliardi di metri cubi di gas a causa delle minori importazioni via nave, 14,6 miliardi di metri cubi via tubo (perlopiù dalla Russia) e 16,2 miliardi di metri cubi di produzione domestica. Ecco perché diversi paesi stanno mettendo in azione piani di emergenza: per esempio, l’Olanda – che aveva previsto la sospensione delle operazioni nel suo giacimento più grande, Groeningen – ne ha improvvisamente allungato la vita e ha chiesto di incrementare lo sforzo produttivo. Ed è contro questi numeri che va paragonato anche l’impegno italiano ad aumentare di 3-4 miliardi di metri cubi la produzione domestica: possono apparire pochi rispetto ai circa 70 di consumo nazionale annuo, ma sono molti rispetto ai “buchi” che si sono aperti nel corso del 2021.

In ogni caso, il problema è più vasto di quello che appare. Negli ultimi anni gli investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti sono letteralmente crollati. Si stima che, nel periodo 2021-2030, il sottoinvestimento nell’upstream oil & gas potrebbe raggiungere l’enorme cifra di 600 miliardi di dollari, esacerbando il problema della scarsità. D’altronde, ormai tutti i paesi – e certamente quelli più industrializzati – stanno fissando obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione e dichiarano scenari di domanda in continuo declino. Inoltre crescono quotidianamente sia le pressioni regolatorie, sia le fughe in avanti del mondo della finanza per disinvestire dai fossili. E’ chiaro che questo non può che produrre un afflusso inadeguato di capitali, e che – per effetto del conseguente aumento dei prezzi – tutto ciò finisce per sostenere i margini degli operatori. Come ha titolato il Financial Times del 30 dicembre: “ESG shares underperform oil and gas in 2021”.

A questo si aggiunge la bassa produzione delle fonti rinnovabili in questo periodo dell’anno. Non solo, nei mesi invernali, i pannelli fotovoltaici possono dare un contributo limitato, ma anche l’eolico (specie i grandi impianti offshore nel Mare del nord) ha pagato dazio a un trimestre poco ventoso dopo l’estate. Tra l’altro, qualcuno sospetta che la ridotta ventosità possa essere una conseguenza dell’aumento delle temperature medie: l’Ipcc ne prevede un calo dell’ordine dell’8-10 per cento nei prossimi decenni. Se così fosse, come ha scritto Alberto Clò sul blog della rivista Energia, “quanto osservato nei mesi scorsi potrebbe non essere un fenomeno temporaneo ma strutturale”.

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La combinazione di queste due diverse forme di scarsità – che riverberano negli alti prezzi del gas e nel mancato apporto dell’eolico – ha restituito vita e competitività al carbone e persino all’olio combustibile, pressoché abbandonato nella generazione elettrica. E questo, a sua volta, ha fatto crescere le emissioni di CO2 e la domanda di certificati, acuendo le pressioni sui prezzi di questi ultimi, che si collocano a livelli record superiori agli 80 euro / tonnellata (corrispondenti a un incremento dei prezzi elettrici attorni ai 27 euro / MWh).

Come si vede, le cause del caro-energia, sia quelle di lungo termine, sia quelle legate a fattori congiunturali, sono perlopiù radicate nelle condizioni effettive di domanda e offerta. Questo comporta che difficilmente una risposta può arrivare da scelte in campo monetario o fiscale, che al massimo possono agire da palliativo. Semmai occorre intervenire sulle ragioni profonde, cioè stimolare l’aumento (e la diversificazione) dell’offerta e la riduzione della domanda. La buona notizia è che in gran parte questi interventi di maggiore efficienza nei consumi e di ampliamento dell’offerta (rinnovabili, nucleare e produzione domestica di gas) è in linea con gli obiettivi climatici dell’Unione europea. Implica infatti una riduzione delle emissioni sia diretta (man mano che gli impianti fossili saranno sostituiti da altri a basse emissioni) sia indiretta (la produzione di gas vicino ai luoghi di consumo limita il rischio di emissioni fuggitive durante il trasporto). La cattiva notizia è che pure la maggiore domanda di nuove tecnologie è destinata, almeno nel breve termine, ad aumentare i costi del sistema. Lo provano le tensioni sui prezzi delle terre rare e degli altri materiali necessari alle tecnologie per la transizione. E lo conferma l’intervento di Isabel Schnabel, membro del board della Bce, che ha avvertito del rischio di una “greenflation”: d’altronde, se fosse vero che esistono alternative a basso costo e a basso impatto ambientale alle tecnologie tradizionali, e che queste alternative possono essere facilmente e rapidamente messe a terra, non ci sarebbe bisogno di incentivi, obblighi e tasse ambientali.

Che fare, allora, nel breve termine? Per capirlo bisogna anzitutto mettere il tema dell’inflazione energetica nel contesto più ampio dell’andamento del livello dei prezzi.

 

L’inflazione di fondo

Proprio la natura volatile della componente energetica suggerisce di guardare alla componente “di fondo” dell’inflazione. In questo caso la situazione è apparentemente meno drammatica. Infatti, almeno nell’Eurozona e ancor più in Italia, essa è sì in crescita, ma sembra restare ben al di sotto dei livelli di guardia. Questo significa che siamo davanti a un disaccoppiamento tra l’andamento dei prezzi negli Usa e nell’Ue? Sia come sia, a Francoforte non sottovalutano i segnali che stanno arrivando. La stessa Christine Lagarde ha recentemente dichiarato che nel board della Bce si discute di “inflazione, inflazione, inflazione”, pur ribadendosi convinta che essa rientrerà al di sotto della soglia del 2 per cento man mano che i fattori congiunturali saranno scemati.

Resta però un problema: e se fossero proprio le politiche per la ripresa che stanno alimentando l’inflazione?

Le banche centrali, inclusa la Bce, perseguono da anni politiche espansive. Lo stesso bilancio della Bce è ormai pieno di azioni e di titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Italia in primis. Ma, adesso, ci si è messo di mezzo il Covid-19. Negli Stati Uniti, prima Trump e poi Biden hanno varato pacchetti di stimolo senza precedenti, nell’ordine delle migliaia di miliardi. Solo l’ultima tranche voluta da Biden – e ostaggio del Congresso – vale più dell’intero pil italiano. In tal modo hanno gonfiato una domanda che già era sostenuta dai risparmi accumulati durante il periodo delle restrizioni e dei lockdown. Come ha scritto l’economista John Cochrane, l’effetto economico della pandemia è stato simile a quello di una bufera di neve: non importa quanti soldi sono stati trasferiti alle persone. Poiché non potevano uscire di casa e spenderli, se li sono messi in tasca. E ora che la neve si sta sciogliendo non vedono l’ora di goderseli. La reazione europea non è paragonabile a quella americana: ma anche gli Stati membri, sia attingendo a risorse nazionali sia comuni, hanno inondato i mercati di risorse fresche, facendo esplodere il peso del debito pubblico.

 

Cattive idee e possibili soluzioni

E’ interessante, allora, seguire il dibattito americano perché anticipa ciò che potrebbe succedere da noi. Sebbene le cause dell’inflazione siano analoghe – restrizioni dal lato dell’offerta a causa del Covid, strozzamenti globali nelle forniture e nella logistica, aumento dei costi delle materie prime – la situazione è molto diversa, dato che negli Stati Uniti si aggiunge una forte spinta inflattiva dal lato della domanda a causa delle politiche fiscali ultra-espansive. Questo ha comportato un aumento dell’inflazione di fondo oltre a quella energetica, con l’inizio di una rincorsa di aumenti salariali per recuperare l’aumento dei prezzi. E’ per bloccare questa spirale tra salari e prezzi che la Fed è intervenuta annunciando un rialzo dei tassi. 

Non è la situazione dell’Europa, dato che l’inflazione di fondo è ancora bassa. Per spiegare la differenza e la strategia attendista dell’Eurotower, Fabio Panetta, membro del board della Bce, in un discorso a fine novembre ha usato una metafora cinematografica parlando di inflazione “buona, brutta e cattiva”: nel caso attuale si tratterebbe non di un’inflazione “buona”, dovuta a una domanda robusta in linea con l’obiettivo del 2 per cento, ma di un’inflazione “brutta”, dovuta all’aumento di costi soprattutto energetici, e se la Banca centrale intervenisse con una restrizione monetaria produrrebbe più danni all’economia che benefici. Qualora l’inflazione si trasformasse in “cattiva”, ovvero in un aumento persistente dei prezzi, allora la Banca centrale dovrebbe entrare in gioco. Il problema è che non è così facile riconoscere quando l’inflazione da transitoria si trasforma in permanente e agire di conseguenza. Un ragionamento analogo a quello di Panetta l’aveva fatto, sempre a novembre, la presidente della Federal Reserve di San Francisco Mary Daly dicendo che “aspettare è difficile, ma agire senza chiarezza è rischioso”. Il problema è che, subito dopo, la Fed è dovuta intervenire annunciando l’inizio di una politica monetaria restrittiva perché evidentemente si era sbagliata sulla natura dell’inflazione che sta diventando sempre più cattiva.

Un altro aspetto interessante del dibattito americano è il ritorno, insieme all’inflazione, delle cattive idee per contrastarla. L’esempio più clamoroso è quello della fissazione amministrativa dei prezzi (o di tetti ai prezzi). Negli Stati Uniti, però, questa pessima soluzione non è stata proposta in relazione ai prezzi di un bene o di un settore specifico ma, peggio, per contrastare l’aumento generale dei prezzi come per decenni hanno fatto, con pessimi risultati, in Argentina e altri paesi sudamericani. Il dibattito è stato aperto quando diversi studiosi – tra cui Isabella Weber (University of Massachusetts Amherst), la teorica della MMT Stephanie Kelton e l’ex consigliera economica di Giuseppe Conte, Mariana Mazzucato – hanno condiviso l’idea di mettere sotto controllo l’inflazione attraverso un calmiere più generalizzato. Perfino Paul Krugman ha definito l’idea “davvero stupida” (salvo poi correggersi e scusarsi per la rudezza dell’espressione). 
In realtà, tra gli economisti tutto questo dibattito non c’è. Nel periodico sondaggio della Initiative on Global Markets della Chicago Booth, il 58 per cento degli studiosi interpellati ha bocciato la proposta. Nessuno ha detto di condividerla pienamente. Il 23 per cento si è detto potenzialmente d’accordo con l’affermazione che il controllo dei prezzi può abbassare l’inflazione, ma praticamente tutti hanno aggiunto che sarebbe una pessima idea perché produrrebbe danni ben peggiori. Altrettanto singolare appare la tesi dell’Amministrazione Biden secondo cui la causa dell’aumento dei prezzi sarebbe dovuta all’eccessivo potere di mercato delle imprese e, di conseguenza, l’idea di combattere l’inflazione attraverso politiche Antitrust. Posto che politiche per la concorrenza sono sempre positive, non si comprende perché la concentrazione di mercato che c’è sempre stata avrebbe prodotto inflazione solo quest’anno e perché l’aumento dei prezzi dovrebbe proseguire nel tempo.

Ma se gli studiosi assistono spaesati a questa discussione, essa sta già in realtà producendo conseguenze e informa molte decisioni dei governi. La Francia ha obbligato il colosso elettrico Edf a vendere energia a prezzo calmierato mentre il governo italiano ha stabilito un limite al prezzo delle mascherine chirurgiche nel 2020 e dei tamponi in farmacia nel 2021. Nelle scorse settimane ci si è provato con le mascherine Ffp2, riducendosi poi all’iniziativa puramente cosmetica di un tetto “volontario”. E, quando anche non si arriva alla fissazione amministrativa dei prezzi, si cerca di affogarne il valore segnaletico, tra l’altro rallentando e ostacolando gli aggiustamenti del mercato. Ancora una volta, è nel settore dell’energia che lo si vede con nettezza. A partire dal terzo trimestre 2021 il governo italiano ha stanziato enormi risorse (oltre 10 miliardi di euro) per mitigare gli aumenti energetici. In pratica, al netto della comprensibile reazione iniziale, sembra che l’esecutivo abbia disegnato la sua strategia come una sorta di scala mobile dei prezzi energetici. Questo approccio è sbagliato per due ragioni: perché, se l’obiettivo è prevenire i rincari, le risorse non basteranno mai; e perché l’attenuazione dei segnali di prezzi rischia di esacerbare, anziché risolvere, le cause del problema. Quando sarebbe più sensato dare supporto a chi non è in grado di reggere l’urto – famiglie a basso reddito e imprese particolarmente esposte – rinunciando alla pretesa di proteggere tutti da tutto, soprattutto se il costo dell’energia è previsto essere strutturalmente su un livello più elevato del passato. Invece, questa particolare riedizione della scala mobile rischia di produrre, in un contesto mutato, gli stessi effetti della sua illustre precedente e soprattutto rischia di dimostrarsi altrettanto resiliente (per usare un termine in voga). Ci volle un immenso capitale politico, negli anni Ottanta, per scardinare quel meccanismo perverso: ce ne vorrà altrettanto nei prossimi anni.

 

Rischi per l’Italia

Quali sono, allora, i pericoli per il nostro paese? Intanto è molto probabile che la crescita economica rallenterà: il Fondo monetario internazionale ha già tagliato le previsioni per il 2022 di 0,4 punti, al 3,8 per cento (anche se le previsioni del ministro dell’Economia Daniele Franco restano più ottimistiche: oltre il 4 per cento). Lo shock energetico alza i costi di produzione e colpisce il settore manifatturiero, che rappresenta la parte più dinamica e competitiva dell’economia italiana. Per un paese trasformatore e importatore di energia, una ricaduta negativa è inevitabile. L’Italia si trova inoltre in una situazione eccentrica rispetto al resto dell’Eurozona. Da un lato, essendo uno dei paesi più indebitati, l’inflazione è accolta con favore, perché erode il debito pubblico alleggerendone il peso. Dall’altro, nonostante l’elevato indebitamento, è un paese che ha adottato una politica fiscale molto espansiva, molto più di altri paesi in condizioni simili quali Francia, Belgio e Spagna. Il governo ha puntato tutto sulla crescita a deficit (siamo infatti l’unico paese che ha deciso di prendere tutta la componente di prestiti del Pnrr). Quindi, se la Banca centrale europea dovesse orientarsi verso una politica monetaria restrittiva per contenere la crescita dei prezzi, ci troveremmo doppiamente spiazzati: da un lato un incremento dei tassi farebbe aumentare il costo del debito e dall’altro potrebbe rallentare ulteriormente la crescita economica. La minore crescita, a sua volta, implica minore gettito fiscale, con tutte le conseguenze del caso per uno stato il cui bilancio pubblico anche quest’anno chiuderà pesantemente in rosso (4,4 per cento secondo la Nota di aggiornamento al Def licenziata a settembre 2021). 

Questo porrebbe un serio problema alla politica di bilancio impostata del governo Draghi che – come hanno scritto in un documento abbastanza allarmato gli economisti Bastasin, Bini Smaghi, Meliciani, Messori, Micossi, Padoan e Toniolo – “è sempre più esposta a eventuali tensioni che emergessero sui mercati finanziari per effetto dell’innalzamento dei tassi di interesse”. Il governo prevede infatti di riportare il debito pubblico ai livelli pre-crisi, circa il 130 per cento, entro il 2030 attraverso una politica espansiva fino al 2024. Questo percorso è una scommessa sulla crescita che si basa su un impegno politico interno, fare contemporaneamente investimenti produttivi (“debito buono”) e riforme strutturali, e su un contesto di tassi di interesse che restano bassi a lungo.

Dal punto di vista politico, l’attuale maggioranza spera di catturare i benefici di questa politica scaricandone i costi sull’esecutivo che verrà dopo le elezioni. L’aggiustamento fiscale conseguente sarà durissimo: la Nadef, nella sezione sulla proiezione del debito nel medio periodo, mostra che senza una correzione nel 2030 il debito dopo una discesa tornerà al 153 per cento del pil. Mentre per portarlo al 130 per cento servirà un consolidamento fiscale di almeno mezzo punto di pil ogni anno, fino ad arrivare a un avanzo primario strutturale del 2 per cento nel 2029. Naturalmente questo progressivo aggiustamento può essere agevole con una crescita economica sostenuta e a un tasso superiore a quello pre-crisi, mentre sarà doloroso con una crescita economica flebile come quella degli ultimi 30 anni. E questo oltre a essere un problema a Roma, lo è anche a Francoforte. E’ il “dilemma della Bce”, come l’ha definito Cochrane: se l’Eurotower non fa nulla l’inflazione continuerà a salire aumentando i malumori in Germania ponendo un problema all’Eurozona, se invece smette di acquistare titoli o alza i tassi aumenterà il costo del debito in Italia ponendo comunque un problema all’Eurozona.

Naturalmente l’Italia non è completamente scoperta. Chi vigila sul debito italiano negli ultimi mesi ha messo fieno in cascina: il Tesoro ha liquidità sufficiente per assorbire senza molti problemi rialzi di 100 o 200 punti base. Anche perché le emissioni in scadenza avevano tassi più elevati e quindi, anche con un aumento dei tassi, il costo del debito continuerà a scendere. Inoltre la vita media del debito si è allungata a oltre 7 anni e quindi, nonostante la mole complessiva sia preoccupante, la trasmissione dell’incremento dei tassi sarebbe diluita nel tempo. Però resta una questione di fondo. La scommessa della politica di Draghi è quella di innalzare il potenziale di crescita del paese perché questo produce un doppio effetto: da un lato la crescita fa diminuire il debito in rapporto al pil e dall’altro aumenta la fiducia nel paese che mantiene bassi i tassi di interesse. Il pericolo, però, è che si innesti un circolo inverso e cioè che una politica monetaria restrittiva per contrastare l’inflazione deprima la crescita economica, cosa che a sua volta fa aumentare il debito e di conseguenza alimenta la sfiducia che richiede rendimenti più alti sui titoli di stato. Inoltre, per alzare la crescita potenziale nel lungo termine non basta la spesa pubblica, né quella alimentata dal debito “buono” degli investimenti, né tantomeno quella dei bonus e della spesa corrente irresponsabile che neppure nell’ultima legge di bilancio è mancata. Servono riforme e cambiamenti strutturali: qualcosa è stato fatto, ma molto di più è stato rinviato a tempi migliori e maggioranze diverse. 

 

Sarebbe un vero paradosso se proprio nel momento in cui a Palazzo Chigi siede un ex banchiere centrale (Mario Draghi) e a Via XX Settembre un ex Ragioniere generale dello stato (Daniele Franco) il paese si avvitasse in quel tipo di politiche che abbiamo già sperimentato e che ci hanno portato, all’inizio degli anni Novanta, sull’orlo del fallimento. Con l’elezione del presidente della Repubblica l’Italia apre una nuova fase politica: ma le nubi sono fosche, davanti a noi abbiamo nuovi problemi, mentre quelli vecchi – dalle finanze pubbliche fuori controllo alla burocrazia elefantiaca – non sono ancora stati risolti né lo saranno a breve, nonostante lo sforzo di riforme e investimenti previsto dal Pnrr. Ecco perché, forse più dell’anno appena passato, sono gli anni a venire quelli in cui avremo davvero bisogno dell’agenda Draghi.

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