ANSA/ALESSANDRO DI MEO 

L'intervista

Transizione senza demagogia. Come si fa? Parla Descalzi

Stefano Cingolani

Perché la sicurezza energetica s’incrocia con l’indipendenza tecnologica. Intervista all’amministratore delegato di Eni

Spenti i riflettori di Glasgow, la transizione ecologica appare sempre più come una fuga in avanti. Necessaria, ma troppo rapida e ambiziosa al contrario di quel che sostiene il popolo verde. Gli obiettivi fissati nel 2015 a Parigi non sono stati raggiunti, nonostante i passi avanti realizzati, quelli indicati dalla Cop26 rischiano di fare la stessa fine. Sembra quasi che nessuno sia consapevole di quanto sia difficile depurare in due decenni quel che  è  stato intossicato in quasi due secoli. Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, è un uomo d’industria, un fisico diventato ingegnere, un milanese che ama grandi progetti e sa stare con i piedi per terra. In una rara giornata di sole lombardo, con indosso la dolcevita blu che gli dà  un’aria rilassata nonostante il turbinio di impegni che si  è  dato, non vuole condividere il vecchio adagio sul pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, piuttosto, nella conversazione con Il Foglio, invita a inserire la transizione energetica nel suo contesto storico. Solo così, del resto, non si rischia di mancare il bersaglio.  

 

“Cambiare non solo è inevitabile, ma  è  assolutamente giusto – esordisce Descalzi – Abbiamo spinto al massimo la macchina mondo, adesso dobbiamo  rimetterla a punto. È impossibile demolire le infrastrutture costruite nel corso dell’intero Novecento. Viviamo in una rete di cavi, di tubi, di impianti e processi industriali.  Dovremmo smantellare tutto questo oppure possiamo utilizzarlo in modo diverso, adattandolo alle nuove esigenze e alle priorità  che ci siamo dati? La risposta razionale è trasformare non cambiare radicalmente sia per problemi di costi che di tempi, anche se capisco che spesso prevalgono gli impulsi e le passioni. Abbiamo davanti a noi un lavoro immenso che si può fare solo muovendosi di concerto; politica, istituzioni, industria, debbono procedere all’unisono, rifiutando ideologie anti tecnologiche, perché proprio la tecnologia è la chiave della transizione. Non basta dare obiettivi e non basta nemmeno mobilitare grandi risorse finanziarie, per passare dalle parole ai fatti occorre dotarsi di strumenti adeguati”. 

 

La tecnologia, dunque, ecco il grande filo conduttore. È il cuore del mutamento in corso all’Eni, racconta Descalzi: “Il nostro profilo è quello di una compagnia tecnologica che fa ricerca e possiede tecnologie proprie. A questo scopo, stiamo lavorando e investendo da parecchi anni, abbiamo brevetti, abbiamo soluzioni nuove e tutte nostre”. La tecnologia deve essere neutrale, sartoriale e proprietaria. Neutrale perché è necessario utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per favorire la transizione energetica, senza escluderne nessuno (e qui il pensiero va al nucleare, anche se in Italia quello tradizionale oggi non è politicamente proponibile); sartoriale perché va adattata alle singole esigenze che variano da settore a settore e da paese a paese; proprietaria perché non esiste un supermercato della tecnologia. Che essa sia ormai una commodity è diventato uno slogan diffuso, può essere vero per le tecnologie tradizionali, non per le nuove: “Non si può comprare quello che non c’è”, ribatte Descalzi e lui intende dedicarsi anche a quello che ancora non c’è. 

 

E l’Eni, come mette in pratica questo precetto? Con un ampio ventaglio di strumenti: la cattura della CO2 collegata anche all’idrogeno blu che viene dal metano per decarbonizzare i processi della raffinazione (per quello verde prodotto utilizzando solo le energie rinnovabili ci vorrà tempo e denaro: Eni, comunque, se ne sta occupando), i biocarburanti (ha appena firmato un accordo per entrare nel capitale delle Bonifiche Ferraresi allo scopo di sperimentare sementi nei terreni marginali), l’economia circolare, la trasformazione dei rifiuti in prodotti, gli investimenti per bloccare le emissioni di metano, “le fuggitive” come si chiamano, i servizi di distribuzione. E sul nucleare c’è la fusione a confinamento magnetico: l’Eni ci lavora con il Mit di Boston, un primo test ha avuto successo e tra quattro anni sarà in funzione un reattore sperimentale. “All’interno di Eni abbiamo tanti business con un grande potenziale che ancora non hanno la giusta visibilità e quindi la giusta valorizzazione – spiega Descalzi – Ora dobbiamo enucleare tutto quel che è nascosto, farlo emergere, valorizzarlo, portarlo eventualmente in borsa. È quel che vogliamo fare con Plenitude (la ex Eni gas e luce)”.

 
Nel gergo energetico si parla di scope 1 e 2, le emissioni generate durante i processi di trasformazione delle risorse primarie per produrre prodotti ed energia, sono quelle riconducibili alle società come Eni, e scope 3 per quelle che dipendono dall’utilizzo dei prodotti energetici riconducibili ai consumatori. “I processi che stiamo sviluppando – dice Descalzi – debbono essere in grado di decarbonizzare tutto, gas, petrolio, elettricità accompagnati da un intenso sviluppo delle rinnovabili”, un compito estremamente complesso nel quale l’offerta incontra la domanda. “Per avere un impatto sullo scope 3 è necessario essere forti nel retail, avere molti clienti ai quali fornire tutti i prodotti verdi e decarbonizzati e noi per fortuna abbiamo una rete distributiva importante che stiamo potenziando e trasformando”. La stazione di servizio con l’insegna del cane a sei zampe diventa un ampio negozio nel quale se vuoi puoi anche fare il pieno di carburante o collegarti all’alimentatore elettrico. Qui gioca un ruolo fondamentale Plenitude che “avrà un modello di business unico, combinando produzione da rinnovabili, vendita di energia e servizi, punti di ricarica”, spiega Descalzi il quale prevede un margine operativo lordo in aumento dagli 0,6 miliardi nel 2021 a 1,3 miliardi nel 2025. La società sbarcherà in Borsa e sarà la più grande quotazione degli ultimi vent’anni in piazza degli Affari, avrà debito netto prossimo a zero dal primo gennaio 2022 con un programma di investimento da circa 1,8 miliardi di euro l’anno finanziati con la cassa generata dalla propria attività.

 

Questa corona di business nuovi o rinnovati circonda per così dire il gas che resta il singolo ramo d’affari prevalente. “Di gas c’è bisogno e ce ne sarà ancor più bisogno in Italia e in tutto il mondo proprio per accompagnare e favorire la transizione. La domanda è ripartita su grande scala non appena si è allentata la pandemia, stiamo tornando ai livelli del 2019. La pressione sui prezzi è la spia di questa forte ripresa. I governi si sono dati l’obiettivo di cambiare l’offerta, ma debbono tener conto della domanda”. Eppure si sente un coro di condanna del gas, fonte da relegare in un fuligginoso passato. La priorità è ridurre fino ad azzerarlo l’utilizzo del carbone per produrre elettricità (anche in Italia sia pure meno che in altri pesi come la Germania, per non parlare della Polonia), ma sul banco degli accusati finisce il metano. Un atteggiamento che il top manager dell’Eni considera irrazionale. In ogni caso, la sintonia alla quale aspira Descalzi resta un obiettivo lontano. Non sarebbe necessario un coordinamento tra le imprese italiane, sia a partecipazione statale sia private, pur senza evocare grandi piani come quello siderurgico del dopoguerra? “Altri tempi, altre situazioni. L’Eni è una società che si muove sul mercato mondiale. Non viviamo di rendita né di tariffe amministrate, bussiamo alle porte e battiamo i marciapiedi per vendere i nostri prodotti, ogni giorno guardiamo come si muove il titolo in borsa e dobbiamo portare a casa risultati, creare ricchezza per tutti gli stakeholder. Non bisogna aver paura di creare ricchezza, al contrario è la premessa per crescere e per cambiare modello di sviluppo”. Non sarà facile combattere i pregiudizi. A Glasgow non è stata invitata nessuna impresa che fa energia anche se poi la Cop26 parla di collaborazione tra pubblico e privato.

  

I governi hanno uno strumento importante per agire sulla domanda e influenzare così l’offerta, sostiene Descalzi: la tassa sulle emissioni. Perché non diventi un balzello controproducente che si scarica sugli utenti e sui contribuenti, deve servire a contenere i prezzi e a sviluppare nuove tecnologie. Insomma, la carbon tax può creare un triangolo virtuoso. Anche in questo caso è essenziale un approccio flessibile. Nei paesi in via di sviluppo la transizione è molto più difficile e costosa, dunque occorre adattare gli interventi e le norme. “Regole uguali, indifferenziate, sono controproducenti – sottolinea Descalzi – Debbono valere per tutti allo stesso modo nei paesi ricchi che sono quelli che emettono di più, così da non creare distorsioni alla concorrenza né rincorse fiscali, ma non dove c’è fame di energia, anche di quella tradizionale”. In altre parole chiudere i pozzi, bloccare le esplorazioni e le perforazioni ovunque e comunque rischia di rivelarsi irrealistico e nello stesso tempo iniquo.

  

C’è un altro grande tema rimasto fuori da Glasgow che non entra nemmeno nel dibattito corrente: la sicurezza energetica la quale a sua volta s’incrocia con l’indipendenza tecnologica. L’Europa (quindi l’Italia) rischia di restare schiacciata da una triplice dipendenza: dalla Russia attraverso il gas, dalla Cina diventata il più grande produttore di pannelli solari e pale eoliche, dagli Stati Uniti per quel che riguarda le fonti tradizionali. Gli Usa hanno raggiunto l’autonomia grazie al gas e al petrolio da scisti bituminose, poi hanno cominciato a esportarlo anche in Europa. E, nonostante l’ambizioso piano Biden, tirano il freno sulla transizione per quel che riguarda il carbone. Non puntano i piedi solo i cinesi, i russi e gli indiani, ma anche gli americani. Eppure agli europei, di gran lunga i più virtuosi, vengono chiesti ancora gli sforzi maggiori, accelerando i tempi, forzando i processi, senza rendersi conto dell’impatto sul sistema produttivo. L’intera manifattura deve cambiare e non si fa certo nello spazio d’un mattino. L’Italia con il suo modello fondato sulle piccole imprese, dovrà sopportare costi anche sociali non indifferenti. 

  

Realismo e flessibilità, insomma, ciò non significa conservazione, aggiunge Descalzi il quale insiste sul percorso avviato all’Eni ben prima della pandemia. Ma questa compagnia che l’amministratore delegato racconta con tanta passione potrà ancora essere chiamata Ente nazionale idrocarburi? BP non è più acronimo di British Petroleum, ma di Beyond Petroleum, oltre il petrolio; Eni potrebbe significare Energia integrata? Descalzi sorride, il dibattito sui nomi come ai tempi della filosofia scolastica non lo appassiona: “Capisco il messaggio, ma non serve, quel che conta non è il nome, è la sostanza”. E su questa sostanza vuol essere giudicato.