Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (LaPresse)

un caso da manuale

L'eterogenesi dei fini del “decreto Orlando” anti-delocalizzazioni

Maurizio Del Conte

Quando si legifera sull’onda mediatica (caso Gkn) si rischia di produrre norme inefficaci e deresponsabilizzanti 

Quando si dice che non si può fare politica del lavoro se prima non si definiscono le politiche industriali, si commette un errore. Le due politiche, infatti, sono l’una conseguenza dell’altra. Ad esempio, si può puntare a una politica di massimizzazione dell’occupazione nel breve periodo favorendo lo sviluppo di imprese che competono sul basso costo del lavoro. Oppure si può investire in formazione, ricerca e sviluppo e moderni servizi per il lavoro, per favorire la crescita di imprese che puntano sulla creazione di valore grazie al miglioramento della qualità del lavoro. Ci sono pochi dubbi che il nostro paese abbia necessità urgente di sostenere la seconda opzione. 

Dunque non deve sorprendere che sia il ministro del Lavoro, prima ancora del ministro dello Sviluppo economico, a indicare gli strumenti regolativi e di sostegno alle imprese che investono in attività ad alto valore aggiunto del lavoro, in una prospettiva di lungo periodo. In questo quadro di riferimento sarebbe più che giustificata una misura diretta a penalizzare le cosiddette imprese “mordi e fuggi”, che non lasciano terra bruciata e provocano pesanti costi diretti e indiretti per la collettività e per il welfare pubblico. V’è da chiedersi, tuttavia, se il cosiddetto “decreto Orlando” di cui si sta discutendo in questi giorni sia formulato coerentemente all’obbiettivo, oppure non rischi di trasformarsi in un caso da manuale di eterogenesi dei fini. Veniamo, quindi, al merito del testo che è circolato in bozza non ufficiale, secondo una abitudine alla anticipazione delle riforme per vedere l’effetto che fa, ormai diventata prassi abituale indipendentemente dai cambi di governo. La norma riguarda le imprese con più di 250 dipendenti che intendano chiudere l’attività senza versare in stato di crisi conclamata. 

 

In estrema sintesi, si prevede che: a) l’impresa invii una informazione dettagliata sul progetto di chiusura al ministero del Lavoro, al ministero dello Sviluppo economico, all’Anpal, alle regioni in cui è collocato il sito produttivo e ai sindacati; b) l’impresa presenti alla struttura per le crisi di impresa già istituita presso il ministero per lo Sviluppo economico un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura; c) la struttura per le crisi di impresa esamini il piano con la partecipazione del ministero del Lavoro, dell’Anpal delle regioni e dei sindacati, oltre che con la stessa impresa che ha presentato il piano; d) la struttura valuti il piano presentato dall’impresa e, nel caso non lo ritenga adeguato (o non venga nemmeno presentato), commini una sanzione economica. Qualora invece il piano sia approvato, la struttura dovrà verificare che venga puntualmente realizzato. Lo stesso decreto precisa che questa procedura deve precedere e aggiungersi a quella già prevista dalla legge per i licenziamenti collettivi. Senonché la materia dei licenziamenti collettivi, compresi quelli per cessazione dell’impresa, è regolata da una direttiva europea recepita dal nostro legislatore con la legge 223 del 1991 che prevede, tra l’altro, una complessa procedura preventiva di informazione e consultazione sindacale. 

 

Lo scopo della disciplina di derivazione europea è proprio quello di evitare che si arrivi al taglio del personale senza averne preventivamente discusso con i rappresentati dei lavoratori e senza aver esaminato le possibili alternative ai licenziamenti. Laddove ciò non sia possibile, la legge del 1991 impone alle parti di verificare la possibilità di ricorrere a misure sociali di accompagnamento intese, in particolare, a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati. Da cosa nasce, dunque, l’esigenza di introdurre un nuovo provvedimento che appare, per molti aspetti, un duplicato della normativa già esistente? 

 

Come spesso accade nel nostro paese, le riforme prendono avvio da episodi che hanno avuto vasta eco mediatica. Il “casus legis” del decreto in questione è quello della Gkn di Campi Bisenzio che, di punto in bianco, aveva comunicato via Whatsapp ai lavoratori la decisione di cessare definitivamente l’attività produttiva, intimandogli di non presentarsi in azienda. Nella traduzione mediatica si è subito parlato di “licenziamenti via Whatsapp”, anche se in realtà la comunicazione via smartphone non aveva riguardato i licenziamenti, ma l’intenzione di avviare la procedura di chiusura. Così l’attenzione mediatica si è immediatamente concentrata sull’obbiettivo sbagliato – gli inesistenti licenziamenti via Whatsapp – trascurando il vero punto critico di quel caso, cioè che l’azienda aveva clamorosamente disatteso un preciso impegno assunto in sede sindacale a non procedere ad alcun esubero. Non è un caso che nella bozza del decreto non si faccia alcun riferimento alla forma di comunicazione dei licenziamenti, che è già ben presidiata dalla legge e dalla prassi giurisprudenziale.

 

Resta, invece, il problema, molto serio, di come affrontare i casi in cui l’impresa decida di chiudere senza che sia prevista una continuazione delle attività in capo a un nuovo imprenditore. Normalmente, infatti, l’imprenditore che intende disfarsi di un’attività in buono stato di salute ha tutto l’interesse a vendere l’azienda sul mercato, così da massimizzarne il valore commerciale. In tal caso la legge prevede che il personale transiti alle dipendenze dell’acquirente, mantenendo il posto di lavoro e tutti i diritti che ne derivano. Nel caso di Gkn, invece, la proprietà non ha voluto vendere l’azienda ad altri imprenditori, preferendo dismettere tutti i beni e, quindi, lasciando a casa i lavoratori. 

 

Ma la soluzione prospettata dalla nuova norma, pur muovendo dall’intento dichiarato di salvaguardare l’occupazione, tradisce l’incapacità cronica del legislatore italiano di farsi carico del problema del lavoro se non attraverso interventi di sostegno al reddito, finanziamenti a imprese che non li meriterebbero oppure sanzioni economiche, quando ormai il danno è fatto. Infatti, se da un lato non sembra infondato il dubbio sulla efficacia di una sanzione economica come leva per indurre una impresa a rimanere in vita, l’aspetto più critico del decreto è l’operazione di deresponsabilizzazione di tutti quei soggetti che, per statuto e competenze attribuite dalla legge, dovrebbero avere il compito di creare le condizioni per la effettiva salvaguardia dell’occupazione.

Come si è detto, il decreto demanda alla stessa impresa che intende cessare le attività la elaborazione del piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura, eventualmente avvalendosi di specialisti in materia. Il ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico, l’Anpal e la regione interessata devono solo approvare o bocciare il piano. In tal modo il decreto toglie ogni responsabilità ai soggetti pubblici per l’eventuale fallimento del piano di salvaguardia della occupazione e certifica, nella sostanza, la rinuncia a progettare politiche attive del lavoro efficaci proprio dove servirebbero di più. Con buona pace dell’obbiettivo dichiarato di favorire l’occupazione.

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