Da Gkn a Whirlpool, ogni crisi aziendale è a modo suo

Nunzia Penelope

Da un lato un fondo di investimento, dall’altro un gruppo industriale saldamente piantato in Italia. Due situazioni diverse ma con la stessa conseguenza: la chiusura. Lo sblocco dei licenziamenti è solo una coincidenza, il problema è l’assenza di una politica industriale

Ogni crisi aziendale direbbe Tolstoj, è crisi a modo suo. Bisogna studiarne le caratteristiche prima di decidere come rispondere. Dal primo luglio, data dello sblocco dei licenziamenti, le crisi aziendali sembrano susseguirsi. In realtà nessuna è uguale all’altra, il minimo comune denominatore non è lo sblocco, né ripristinarlo può essere la risposta. Prendiamo due casi emblematici, Gkn e Whirlpool: intanto sono crisi di singoli stabilimenti, non di aziende. Le aziende in sé stanno benone. La Gkn, per dire. Fondata nel ‘700 in Inghilterra, viene comprata nella primavera del 2018 dal fondo Melrose, nato nel 2003, inglese a sua volta, Gli azionisti di Gkn in un primo momento si mettono di traverso, i sindacati e il governo britannico pure, ma alla fine, dopo una lunga trattativa, il fondo ottiene il via libera e si compra Gkn per circa 8 miliardi di sterline.


Il motto aziendale di Melrose è “Buy, improve, sell”, vale a dire “compra, migliora, rivendi”. Comprare buone aziende, aumentarne le performance e rivenderle con profitto. Il mestiere dei fondi. Una volta comprata la Gkn, Melrose inizia una ristrutturazione che porta già nel 2019 a chiudere un paio di stabilimenti negli Stati Uniti. Il 2020 arriva la pandemia e il piano si ferma. A maggio 2021, presentando gli obiettivi nell’Investor day, gli amministratori annunciano una nuova tappa di ristrutturazione per Gkn automotive, con risparmi complessivi per 125 milioni di sterline. L’obiettivo, dicono in sostanza, è rendere l’azienda ancora più efficiente rispetto alle nuove sfide dell’automotive, a partire dall’elettrificazione. A luglio arriva la comunicazione allo stabilimento di Campi Bisenzio: si chiude e la produzione, pare, sarà spostata in Francia e  Polonia. Per quale motivo nessuno lo sa. Potrebbe essere per avvicinarsi al cliente finale (in Francia e Polonia hanno sede alcuni dei principali clienti), o al centro ricerche in Germania. O forse, come dicono i maligni, per scansare i problemi creati dai sindacati italiani: a Campi Bisenzio c’è una forte rappresentanza Fiom che fa capo alla corrente Opposizione Cgil, molto tosta. Sia come sia, Melrose rifiuta qualunque confronto: ciao, si chiude.


Completamente diversa la storia della Whirlpool. La crisi dello stabilimento di Napoli inizia 26 mesi fa, come i dirigenti ricordano nella lettera inviata il 15 luglio ai sindacati e alle istituzioni per avviare la procedura di licenziamento. Whirlpool è un gigante del settore, ha rilevato le produzioni della Indesit dei Merloni e ci ha investito. Oggi ha 4.576 dipendenti in tutta Italia. L’azienda ha buone relazioni con i sindacati, quindi accetta di sedere al tavolo del Mise, epoca Luigi Di Maio e successive. Spiega che la produzione napoletana non va e non c’è possibilità di cambiarla per vari motivi, tra i quali elencano anche la bassa formazione dei 327 dipendenti (tutti operai, nessun dirigente), impossibili da riconvertire se non con costi esorbitanti e tempi biblici. A settembre 2019 i dirigenti Whirlpool propongono un’alternativa alla chiusura: la cessione a un produttore di sistemi frigoriferi, la Prs (Passive refrigeration solutions). Ma si trovano di fronte un muro: “Le organizzazioni sindacali non avanzavano alcuna richiesta di approfondire e anzi respingevano ogni confronto su tale ipotesi”, si legge nella lettera del 15 luglio. Nulla si sa di cosa pensasse il governo rispetto a questa soluzione, ma sta di fatto che anche qui fine della storia: Whirlpool saluta e se ne va.


In sintesi: da un lato abbiamo un fondo di investimento, dall’altro un gruppo industriale saldamente piantato in Italia. Due mondi opposti, due crisi diverse, ma con la stessa conseguenza: la chiusura. Lo sblocco dei licenziamenti  è solo una coincidenza, ma il vero trait d’union di entrambe le storie, a volerne cercare uno, è l’assenza di una politica industriale. 


Per trovare una qualche azione strategica in materia occorre risalire al 2014, al piano industria 4.0 varato quando al Mise c’erano Federica Guidi prima e Carlo Calenda poi. Ma una vera politica di indirizzo è mancata e manca tutt’ora, mentre il Mise sembra procedere per toppe, di crisi in crisi. Un bel problema, quando dovremo gestire il gigantesco piano europeo di riconversione energetica. Comprese le nuove crisi aziendali che ne potrebbero derivare, per le quali saranno necessari anche ammortizzatori sociali efficaci, progetti di ri-formazione, politiche attive del lavoro: tutte cose che mancano quanto la politica industriale. Per cui limitarsi oggi a dire “no ai licenziamenti, no alla chiusura”, sembra una risposta come minimo inadeguata al problema.
 

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