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Ridurre il debito con l'inflazione. S'avanza una rivoluzione nella Bce

Stefano Cingolani

La Banca d’Italia vuole per la Banca centrale europea un obiettivo al 2% ma “simmetrico” (in stile Fed). Ma i falchi frenano. Rischio o opportunità?

Uno spettro s’aggira per l’Europa, anzi per il mondo: lo spettro dell’inflazione. Da quasi un decennio ormai i prezzi sono rimasti attorno all’uno per cento, scendendo persino sotto zero. Adesso sono tornati a salire e spuntano i fantasmi del secolo scorso: gli anni ‘70 o l’iperinflazione tedesca durante la sfortunata Repubblica di Weimar. Paure, ossessioni, ombre, perché di solido e concreto non c’è molto, non ancora. Lo ha confermato Ignazio Visco: “E’ positivo che l’inflazione non sia in calo, ma in aumento… siamo ancora lontani dall’obiettivo di un’inflazione a medio termine vicina al 2 per cento”, ha detto il governatore della Banca d’Italia all’agenzia Reuters; il leggero incremento è dovuto a fattori una tantum tra i quali l’energia, a cominciare dal petrolio che risale dopo anni di depressione. Visco lo aveva già spiegato nelle sue considerazioni finali il 31 maggio, e si era spinto anche più in là. Pochi lo hanno notato, ancor meno se n’è discusso. Eppure è il nocciolo di un confronto, aperto già lo scorso anno nella Banca centrale europea, che dovrebbe portare entro l’autunno a una scelta. Quale? 

Oggi la Bce ha un obiettivo asimmetrico: la crescita media dei prezzi deve essere sempre e comunque inferiore al 2 per cento. Se tocca il tetto, scatta la manovra deflattiva: tassi d’interesse più elevati e meno quantità di moneta in circolazione. Secondo la Banca d’Italia, invece, “un obiettivo numerico pari al 2 per cento, con una valutazione simmetrica degli scostamenti verso l’alto e verso il basso, sarebbe più chiaro e rafforzerebbe l’ancoraggio delle aspettative a medio e a lungo termine”. Si tratta, insomma, di scegliere il 2 per cento quale centro di una dinamica oscillatoria, come ha già deciso di fare la Federal Reserve fin dallo scorso agosto. Un altro passo verso la convergenza tra le due banche centrali avviata da Mario Draghi. Il precetto attuale ha indotto finora la Bce a mantenere i prezzi schiacciati il più in basso possibile per paura che possano sforare il 2 per cento, insomma s’è mossa per molto tempo con il braccino corto; la formula di Visco, invece, consente di agire anche per impedire che i prezzi siano troppo bassi e lascia la possibilità di superare temporaneamente il limite.

La posizione italiana, secondo molte fonti, può essere il punto d’incontro tra le ipotesi più radicali (influenzate anche dalle nuove posizioni del Fondo monetario internazionale) che vorrebbero alzare il target al 3 per cento, e quelle decisamente deflazioniste sostenute dalla Bundesbank e dagli ortodossi olandesi, finlandesi e austriaci. La battaglia è in corso e la tregua non è stata ancora firmata. L’Italia viene messa nel mirino a causa del suo debito pubblico. Una svalutazione indotta dalla dinamica dei prezzi riduce, per un fattore semplicemente contabile, il debito passato a meno che i tassi d’interesse non salgano immediatamente. Non solo: il trattato di Maastricht ha scelto come parametro il rapporto tra lo stock del debito e l’aumento del prodotto lordo nominale, cioè compresa l’inflazione. E’ chiaro che se i prezzi salgono e il pil cresce più rapidamente del debito, quel rapporto diventa favorevole. Con un deflatore di poco superiore al 2 per cento e uno sviluppo equivalente dell’intera economia, il debito pubblico sul pil si ridurrebbe prima del previsto. Ancor meglio se davvero avremo un mini boom nei prossimi due anni e la crescita in quantità arriverà al 3 per cento. “Artifici contabili”, gracchiano i falchi. In realtà, la revisione del target monetario è il primo passo per una riforma anche delle regole palesemente inattuali su debito (avrebbe dovuto essere il 60 per cento del pil invece siamo al 103 per cento) e deficit (è all’8,5 per cento invece del 3). 

Attenti, la moneta conta. Negli ultimi 18 mesi la “liquidità” è aumentata a ritmi che eccedono quello che è stato chiamato il golden growth rate, il tasso di crescita di equilibrio, come spiega Steve Hanke della Johns Hopkins. Ciò è avvenuto quasi ovunque, tranne in Cina, “l’unico tra i maggiori paesi dove si pratica il monetarismo ortodosso”. Dunque, anche se salari e costi stanno crescendo, il dragone rosso non esporta inflazione. Invece il debito globale (pubblico più privato) alla fine del 2020 è arrivato a 250 mila miliardi di euro, cioè ben oltre quattro volte il prodotto lordo mondiale. L’area euro ha un debito pubblico di circa 12.300 miliardi di euro (prima la Francia con 2.840 miliardi, seguita da Italia e Germania); ipotizzando tassi medi all’un per cento si tratta di un onere pari a oltre 1.200 miliardi. In Italia andranno a rimborso titoli per 341,3 miliardi quest’anno, per 210 miliardi nel 2022 e per 247,7 miliardi nel 2023. Un’ingente massa pesa pure sugli altri paesi, i quali però hanno un rating migliore: l’Italia è schiacciata sotto tre pericolosissime B.

 

Gli interessi sono un fardello che spiazza gli investimenti e riduce la crescita innescando un circolo vizioso, ma la tentazione di spremere cittadini e imprese con tasse e patrimoniali sarebbe controproducente (come ha già avvertito Draghi). Wolfgang Schäuble ha rivolto un appello diretto al capo del governo italiano affinché eviti “l’azzardo morale” tornando sul sentiero della virtù. Alcuni parlano di una ristrutturazione (cioè un taglio) dei debiti. L’altra ricetta è l’inflazione la quale non agisce su tutti allo stesso modo: sono penalizzati, ad esempio i risparmiatori, chi vive di rendita o percepisce un reddito fisso. Molti fattori, però, spingono affinché si consenta un aumento controllato dei prezzi: è un beneficio per la congiuntura, alleggerisce i debiti delle imprese e delle famiglie, consente una crescita dei salari e dei profitti, è il grasso che lubrifica la macchina produttiva. 
Può sfuggire di mano come molte volte nel passato, un rischio serio, tuttavia per questo ci sono le banche centrali. E di loro non possiamo non fidarci.

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