Il premier Mario Draghi (Ansa)

Non è il tempo della nostalgia

Perché il nuovo pragmatismo di Draghi mette in mutande gli economisti dogmatici

Claudio Cerasa

La fretta simmetrica di tornare alle battaglie del passato e dimostrare che nulla in fondo è davvero cambiato mal si adatta con una nuova èra bene incarnata da Palazzo Chigi. L’isteria di Provenzano e lo smarrimento dei rigoristi

Il formidabile pragmatismo mostrato in questi primi mesi di governo da Mario Draghi ha avuto l’effetto di far girare la testa in modo traumatico non solo a molti partiti ma anche a diversi economisti. I partiti hanno cominciato a riorganizzarsi, hanno cambiato la linea, hanno mutato la traiettoria, hanno modificato il posizionamento; qualche volta hanno anche sostituito il segretario e, tranne in alcuni casi, hanno capito che in un mondo che cambia non cambiare qualcosa significa restare ancorati a un passato che non tornerà più.

 

Lo stesso fenomeno invece non si può dire che si stia verificando nel mondo degli economisti più dogmatici, molti dei quali, di fronte alla creatività dell’agenda Draghi, iniziano a presentare alcuni segni di isteria. L’incredibile e surreale fuoco di sbarramento portato avanti in questi giorni dal vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, e dal meridionalista Gianfranco Viesti, contro alcune nomine “liberiste” fatte dal Dipe di Marco Leonardi, uno dei consiglieri economici del presidente del Consiglio, è figlio di questo smarrimento. E, più in particolare, è figlio di un particolare disagio vissuto dal fronte più statalista (e neo borbonico) del mondo democratico. Che per poter rilanciare i propri vecchi cavalli di battaglia (è sempre colpa del liberismo) ha un bisogno assoluto di creare nemici che non ci sono (le cavallette del liberismo) affinché sia possibile nascondere la propria incapacità (a) a dettare l’agenda al governo (la Provenzano Associati sta riuscendo nel miracolo di regalare Draghi al partito di Borghi e Bagnai) e (b) a riadattare il proprio pensiero a una stagione ibrida come quella che l’Italia vivrà nella nuova normalità post pandemica.

 

Una stagione all’interno della quale risulterà evidente più che mai come l’unico statalismo in grado di funzionare bene sarà quello che si concentrerà non solo sulla redistribuzione ma anche sulla creazione di ricchezza (sì: il liberismo è di sinistra). Gli economisti che però almeno a livello accademico risultano disorientati dal pragmatismo di Draghi sono anche quelli che hanno una formazione culturale diversa e che hanno costruito parte della propria popolarità nella stagione successiva alla crisi del debito del 2011, a seguito della quale, facendo proprio il modello di successo del nostro amico Carlo Cottarelli, si sono specializzati nel ricordare con periodicità sistematica e competenza disarmante quanto fosse drammatico avere un debito troppo alto, una spesa pubblica fuori controllo, uno statalismo senza più confini, uno spread senza più limiti. Di fronte alla rivoluzione di Draghi – e di fronte a una fase politica in cui il debito è diventato buono, in cui la spesa è diventata inevitabile, in cui la presenza dello stato è diventata ineluttabile e in cui parlare di spread offre al pubblico le stesse sensazioni di chi entra al ristorante ordinando pennette alla vodka – gli inflessibili economisti rigoristi non sembrano essere a loro agio e non sembrano aver trovato argomenti giusti per passare dalla stagione del “non si fa” alla stagione del “come si fa”.

 

Almeno a livello accademico, dunque, i problemi sono speculari. Da un lato, i nemici del liberismo, in un paese che destina il 49 per cento del suo pil alla spesa pubblica, sono lì che indicano nell’aria nemici immaginari (il Draghi liberista ha appena nazionalizzato le autostrade). Dall’altro, i nemici dello statalismo sono lì che chiedono maggiore attenzione ai drammi generati dall’espansione del debito pubblico (senza capire che però oggi il punto non è se usarlo, ma come usarlo). E la fretta simmetrica di tornare alle battaglie del passato e dimostrare che nulla in fondo è davvero cambiato mal si adatta con una nuova èra bene incarnata da Draghi e dalla sua squadra di economisti a Palazzo Chigi, che sembrano aver capito meglio di molti altri come la caduta di alcuni dogmi dovrebbe essere considerata un’occasione utile non per produrre nostalgia ma per creare opportunità. Cari economisti dogmatici, svegliatevi: il mondo è cambiato, ora tocca a voi cambiare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.