Una foto dall'archivio Ansa dell'ex Ilva di Taranto 

Una vera maledizione

Non è un paese d'acciaio

Stefano Cingolani

Scomparsi i Riva e Lucchini, l’Ilva in disfacimento. Hanno fallito tutti: dai tedeschi ai russi, dagli algerini agli indiani

C’era lo stato ed è finito in bancarotta, sono scesi in campo i grandi siderurgici privati, i Lucchini, i Riva, e per motivi diversi hanno alzato bandiera bianca, sono arrivati i tedeschi della ThyssenKrupp, i russi, gli algerini, gli indiani e non è andata bene nemmeno a loro. È una vera maledizione: l’Italia non è fatta d’acciaio, ma nemmeno per l’acciaio? Calma e gesso. Per quasi cent’anni il paese è stato una potenza siderurgica, ancor oggi ha un peso non indifferente sul mercato mondiale. Dunque il male s’annida nella mano pubblica, nelle produzioni più inquinanti, nel Mezzogiorno? È impossibile capire che cosa stia accadendo, difficile interpretare una sentenza che non condanna solo i Riva, ma dà la stura al ribollire di pregiudizi e luoghi comuni, ancor più arduo cercare di indovinare che cosa ne sarà dell’ormai ex Ilva e cosa accadrà all’industria manifatturiera italiana senza il grande polo tarantino. Certo, c’è il turismo, ma anche se fosse possibile assorbire in alberghi, locande, b&b e ristoranti l’occupazione perduta, ci vorranno anni, decenni, per bonificare l’area; Bagnoli, dove l’acciaieria è stata dismessa nel 1992, resta una landa desolata. 

 

Il 2020 è stato un anno difficile. La produzione, su scala nazionale, è scesa al punto più basso mai toccato dal 2008: 20 milioni di tonnellate, il 12 per cento in meno, secondo i dati di Federacciai. I prodotti lunghi, core business dei bresciani, hanno subito un rallentamento inferiore alla media, pari al 9,6 per cento; mentre i piani, legati all’attività dell’ex Ilva, ma anche di due operatori come Arvedi e Marcegaglia (che non è produttore, ma trasformatore), hanno avuto un calo pari al 15,9 per cento. Sempre rispetto al 2008 le esportazioni di prodotti siderurgici sono diminuite dell’ 86,8 per cento a Taranto, relegando il polo al penultimo posto nella classifica dei primi venti italiani; a Piombino non è andata molto meglio (meno 74,3 per cento). La vera emergenza, dunque, riguarda l’acciaio di stato, prima passato ai privati e poi tornato in vari forme di nuovo allo stato? 

 

Secondo una scuola di pensiero bisogna tornare al visconte Etienne Davignon, divenuto commissario europeo all’industria nel 1977, posizione che ha tenuto fino al 1985. Stremata da due crisi petrolifere, l’industria europea aveva bisogno di una drastica ristrutturazione, a cominciare dalla produzione di base che divorava più energia e i cui costi erano schizzati alle stelle. Il piano Davignon chiude il ciclo di una Comunità europea nata con il carbone e l’acciaio (la Ceca) e s’abbatte come un maglio sull’Italsider grazie alla quale l’Italia era entrata nel grande gioco. La siderurgia è ipersensibile alla congiuntura, la produzione sale e scende con una rapidità notevole, quindi i rischi sono molto elevati, un’acciaieria richiede grandi investimenti, un ammodernamento continuo, una riconversione ambientale pressoché permanente, cioè tutto quello che, secondo le accuse, i Riva non avrebbero fatto a Taranto, ma che, per amor di onestà, non aveva fatto nemmeno lo stato padrone. Il ciclo economico s’inverte alla metà degli anni Ottanta, si apre un quinquennio di crescita, un vero e proprio boom, nascono nuove esigenze produttive, torna la fame d’acciaio, esponendo l’Iri, attraverso la Finsider (la holding siderurgica) a oneri finanziari che si sarebbero presto fatti sentire.

 

Il gigantismo pubblico non era mai andato giù ai privati fin dai tempi del piano di Oscar Sinigaglia, perno della ricostruzione postbellica. Allora, in realtà, era stata decisa una vera e propria divisione del lavoro: all’acciaio per la grande industria avrebbe pensato lo stato, soprattutto con gli impianti di Genova, Napoli e poi dal 1965 Taranto che verrà raddoppiato negli anni Settanta fino a produrre 12 milioni di tonnellate di nastri e lamiere con 20 mila lavoratori. I tondini per l’edilizia, i laminati, l’inossidabile, toccavano ai privati. L’unica competizione era sugli acciai speciali che l’Italsider aveva concentrato a Terni mentre Piombino si specializzerà in rotaie. Questo patto non scritto e mal digerito è durato di fatto fino a ieri, cioè fino alla sentenza del tribunale di Taranto. Ecco perché la chiusura della più grande acciaieria d’Europa farebbe mancare all’industria italiana, a cominciare dall’automobile, prodotti fondamentali non rimpiazzabili allo stato attuale dai siderurgici che sono fioriti e rifioriti nel quadrilatero tra Brescia, Mantova, Cremona e Udine, gli Arvedi, i Marcegaglia, i Rocca, gli Amenduni, per fare alcuni nomi tra i più noti. A quella schiera, protagonista in vario modo del miracolo economico e della trasformazione dell’Italia in una delle principali potenze manifatturiere, mancano oggi i Lucchini, per ragioni per lo più dinastiche, e potranno mancare i Riva se la condanna metterà in discussione il loro futuro imprenditoriale (oggi anche senza l’Ilva il gruppo resta al vertice della siderurgia italiana). 

 

E qui arriviamo alla seconda scuola di pensiero, quella che getta la colpa sulla privatizzazione, anzi sullo spezzatino siderurgico perché il colosso pubblico viene venduto a pezzi. Non c’è razionalizzazione che tenga, l’acciaio di stato continua a perdere miliardi su miliardi. Si cambia nome all’Italsider che diventa Ilva, ma la sostanza resta la stessa. Nei primi anni Novanta arriva una nuova recessione. L’industria si concentra in tutta Europa, in Italia i debiti del gruppo siderurgico superano i 10 mila miliardi di lire e si decide di vendere. Nel 1992 Piombino viene ceduta ai Lucchini, due anni dopo la Cogne va ai Marzorati, Terni ai Krupp, la Dalmine ai Rocca e l’Ilva ai Riva. Lo stato incassa settemila miliardi di lire, non abbastanza per compensare perdite che in vent’anni sono arrivate a 30 mila miliardi, tuttavia si chiude un rubinetto dal quale uscivano i soldi dei contribuenti. Ma l’acciaio era in buone mani? Nient’affatto, sostengono i critici delle privatizzazioni e la storia seguente lo dimostra. 

 

I Lucchini sono crollati dopo la morte nel 2013 del fondatore, il cavalier Luigi, re del tondino, buon presidente della Confindustria, anche se si era fatto trascinare da Enrico Cuccia in avventure finanziarie che non gli appartenevano, gli sono costate energie e capitali, senza andare a buon fine. L’erede, il figlio Giuseppe, vende alla russa Severstal dell’oligarca Aleksej Mordašov che poi la cede agli algerini di Cevital, i quali non reggono e passano la mano agli indiani di Jindal: quattro cambi di proprietà in cinque anni (e che cambi). Anche i potenti Krupp (ormai maritati con gli antichi rivali Thyssen) tirano avanti a singhiozzo con gli acciai speciali di Terni, alla fine mollano e adesso lo stabilimento è in vendita. Cogne e Dalmine continuano per la loro strada. L’Ilva implode. I Riva commettono gravi errori e vengono spinti fuori dalla pressione congiunta della politica, locale e nazionale, della magistratura, di gruppi ambientalisti, di una ideologia anti-industriale che va a braccetto con gli interessi di forze economiche e sociali le quali vedono occasioni diverse di guadagno. Arriva il più grande gruppo siderurgico mondiale, che fa capo alla famiglia indiana Mittal, la quale quale ha assorbito la francese Arcelor; dopo un complesso tira e molla prendono in affitto lo stabilimento, ma il loro piano industriale non fa passi avanti, mentre continua a salire la pressione di quella confusa quanto potente coalizione che alla fine della fiera vuole la chiusura dell’acciaieria e non solo dell’area a caldo sotto sequestro ormai da nove anni. Così torna lo stato attraverso Invitalia e mette sul piatto 400 milioni di euro tanto per cominciare. 

 

L’anno prossimo il governo firmerà un assegno di altri 680 milioni per arrivare al 60 per cento della società. ArcelorMittal, con il suo 40 per cento, dovrebbe investire fino a 70 milioni di euro. L’impianto cambia nome ancora una volta, adesso si chiama Acciaierie d’Italia, ma cambia la sostanza? Se il Consiglio di Stato darà ragione al Tar di Lecce e torto al ricorso presentato da ArcelorMittal, Ilva commissariata, ministero dell’Ambiente, i forni verranno spenti come voleva il sindaco di Taranto fin dal febbraio 2020. E poi?

 

E poi basta. “Gli impianti a ciclo integrato che hanno determinato la morte di innumerevoli persone tra cui tanti bambini, vanno chiusi per sempre”, proclama Michele Emiliano, il presidente della regione Puglia già sindaco di Bari e magistrato, che non si perde in sfumature. Importiamo l’acciaio, per esempio dalla Turchia – dicono i No Ilva. Si può fare? Certo costerebbe un bel po’ al sistema industriale pubblico e privato che, oltre tutto, non avrebbe la certezza delle forniture. Ma esiste un problema in più. L’acciaio non è il petrolio, va prodotto per molti versi à la carte, in rapporto stretto con gli utilizzatori finali. Ciò è vero in modo particolare nell’industria automobilistica e lo dimostra la Germania dove questo legame viene mantenuto e preservato, spiega Pierluigi “Cino” Molajoni, che per 26 anni è stato chief economist alla Techint. Non è una questione solo di prezzo, ma di strategia industriale che ha a che fare, a sua volta, con le scelte strategiche di fondo, con il modello di paese. Esiste una forte opinione che vede il futuro dell’Italia nel turismo (sia di massa sia di culturale), accoppiato con la sua antica sapienza artigianale, nelle nano-imprese magari specializzate per occupare nicchie di eccellenza, nel “made in Italy” sia esso alimentare o legato alla moda e all’abbigliamento. Se mettiamo insieme tutto questo oggi potremmo produrre un terzo del reddito nazionale. Quanto all’industria, è la meccanica a tenere in piedi la manifattura italiana e le esportazioni, non la pasta e i pomodori pelati (con tutto il rispetto). I servizi, a cominciare dai ristoranti per i quali si spendono soldi, energie, parole in libertà e una propaganda sesquipedale, prosperano se il reddito viene prodotto e non solo consumato. Chiudere la grande siderurgia, dunque, è una ipotesi insensata. Va salvata trasformandola, ma come? 

 

Secondo Ugo Calzoni, che dal 1970 al 1993 ha lavorato con Luigi Lucchini ed è stato anche suo assistente anche alla Confindustria, Franco Bernabè dovrebbe ottenere garanzie serie sulla possibilità rilanciare l’azienda e investire nella riconversione per un periodo non inferiore ai 5-8 anni senza dover incorrere in interventi della magistratura. I fornitori e i clienti vogliono certezze, chiedono continuità. Il risanamento ambientale, inoltre, passa attraverso investimenti negli impianti, ma richiede anche una operazione radicale sul quartiere Tamburi. Bisogna fare come a Malpensa: spostare gli abitanti offrendo loro un nuovo alloggio o una ricompensa in denaro. Calzoni ha scritto insieme a Franco Locatelli un libro (“Imperi senza dinastie”) che, raccontando la storia di Lucchini e dei bresciani, è prezioso per capire l’acciaio all’italiana. Ci vorrebbe un nuovo piano Sinigaglia che, però, metta insieme pubblico e privato perché “le rivalità storiche sono finite”, sottolinea Calzoni e questo è il momento di agire con una logica di sistema. “Ci sono nella siderurgia privata uomini ricchi di capacità e di capitali, attestati sulle loro imprese personali. Ci sono imprenditori della impiantistica siderurgica che hanno conquistato primati e successi a livello internazionale. Ci sono le condizioni per spingerli ad una azione in comune, costruendo una leadership indiscussa e le condizioni essenziali per poter affrontare i tempi dei nuovi assetti azionari”. Molti sono rimasti arroccati nei propri stabilimenti di famiglia, caratterizzati in gran parte da una produzione a basso valore aggiunto come il tondo per cemento armato, legati al rottame e ad un mercato tutto sommato regionale. Nei loro fortini produttivi hanno concentrato capitali e investimenti indirizzati a una continua innovazione tecnologica ed energetica per potersi difendere da una concorrenza mondiale (si pensi alla Cina, all’India, alla Corea) favorita da costi del tutto impensabili in Europa. Ma a questo punto la sorte della siderurgia è diventata una questione nazionale e riguarda tutti. 

 

Alcuni segnali nuovi stanno emergendo. Arvedi era stato messo in campo per l’Ilva. Mentre a Piombino è intervenuto di nuovo lo stato attraverso la Cassa depositi e prestiti, i Marcegaglia, già in cordata con Arcelor, ora guardano a Terni. Il piano di Acciaierie d’ltalia prevede un assetto ibrido: a regime, cioè nel 2025, la fabbrica dovrà produrre 8 milioni di tonnellate di acciaio, di cui 2,5 da ciclo elettrico. L’inquinamento si ridurrebbe del 25-30 per cento. La Danieli, insieme alla Saipem (Eni) e a Leonardo, propone una tecnologia che secondo il presidente Antonello Mordeglia taglia le emissioni almeno del 75 per cento. La Fincantieri con la tedesca Wurth ha presentato un suo progetto. C’è poi l’idrogeno, che però presenta problemi non da poco: tempi lunghi per la realizzazione, minore produzione, bassa resa e costi elevati come dimostrano le sperimentazioni in corso in Austria e (ancora allo stato larvale) in Svezia. E le cozze pelose? Quanto a lungo dovranno aspettare prima di diventare il futuro di Taranto, come disse la grillina Barbara Lezzi quando era, ahinoi, ministra per il Mezzogiorno? In realtà, il paese in cui le cozze sono un piatto nazionale non è l’Italia, bensì il Belgio, sì proprio quello delle miniere e delle fumose acciaierie. Ma meglio non scherzare troppo, perché con quel che accade oggi nel tacco dello stivale, non si scherza davvero.

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