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La proposta di Letta ha una gamba storta

Lorenzo Borga

Della tassa di successione si può discutere. La dote ai diciottenni invece è un’idea debole e difficilmente applicabile

Il Partito democratico di Enrico Letta ha fatto una doppia proposta. Da una parte aumentare le tasse di successione per i patrimoni oltre i 5 milioni di euro, passando da un’aliquota del 4 per cento a una del 20. Una richiesta che arriva da molti esperti di ogni estrazione ideologica, poiché oggi la tassazione delle eredità è piuttosto bassa e per di più esclude dall’imposta chi eredita proprietà aziendali e quote societarie. La seconda gamba della proposta di Letta è utilizzare ciò che si raccoglierebbe con la tassa per finanziare una dote di 10 mila euro a circa la metà neodiciottenni selezionati in base al reddito, una boutade difficilmente applicabile e con un sacco di debolezze. Il problema è che Letta si è affezionato alla boutade, invece che alla proposta seria.


Ci sono diverse ragioni per ritenere la prima una buona idea. Prima di tutto in Italia la tassazione sulle eredità è molto più bassa che negli altri paesi avanzati, a differenza di quanto accade per il resto del sistema fiscale. L’Italia è agli ultimi posti della classifica Ocse per quanto riguarda il gettito derivante dalle imposte di successione e sulle donazioni. La media internazionale, rispetto al pil, è attorno allo 0,5 per cento, cinque volte il dato italiano. Se le tasse in Italia fossero dunque portate al livello della media Ocse il nostro paese potrebbe contare su circa 7 miliardi in più in bilancio. Ma certo questa ragione non basta a motivare la scelta di aumentare le imposte sulle successioni.


Serve dunque interrogarsi sull’obiettivo dell’imposta di successione. La sua ratio è ridurre le disuguaglianze tra i cittadini, attuando una redistribuzione che con l’Irpef si fa sempre più fatica a ottenere. Se infatti sul reddito negli ultimi anni in Italia non si è verificato un incremento significativo della disuguaglianza, sul patrimonio – altrettanto importante per definire il benessere dei cittadini – le cose sono andate diversamente. Uno studio recente di Paolo Acciari, Facundo Alvaredo e Salvatore Morelli ha dimostrato, utilizzando dati più precisi rispetto a ricerche precedenti, che negli ultimi venti anni lo 0,01 per cento degli italiani più ricchi ha visto i propri patrimoni triplicare, mentre il 50 per cento più povero ha subito una riduzione dell’80 per cento della ricchezza netta.

  


Tassare le successioni d’altronde non è ascrivibile alle politiche bolsceviche, per di più quando si parla di aliquote al 20 per cento. Né presenta motivazioni etiche per rifiutarla: perché non poter tassare un’eredità, potenzialmente basata anche sulla rendita e ricevuta non per proprio merito, quando ogni mese accettiamo di pagare tasse ben più alte sul reddito da lavoro, frutto del nostro sudore? Anche nell’impostazione liberale dell’economia è ritenuta rilevante l’uguaglianza delle opportunità, che tende a mettere nelle stesse condizioni tutti gli individui all’inizio del proprio percorso di crescita, per poi lasciare al merito e alle vocazioni individuali il raggiungimento di risultati che non possono che essere differenti. Una tassa seria sull’eredità può essere parte della soluzione.


La seconda gamba della proposta di Letta, la dote di 10 mila euro, è invece quella che presenta più problemi. I motivi sono tanti. Già oggi il welfare italiano offre una quota troppo elevata di aiuti in cash, piuttosto che attraverso servizi di qualità: il reddito di cittadinanza ne è un esempio. Inoltre il rischio è che della dote beneficino soprattutto i genitori. Anche se il bonus arriverebbe nel conto corrente dei diciottenni, è possibile che alcune famiglie finiscano per ridurre le spese destinate all’istruzione o all’alloggio dei figli, e li lascino affrontare da soli queste incombenze. Secondo un classico meccanismo di sostituzione. Per di più, se l’obiettivo – meritevole – della misura fosse quello di fornire un piccolo capitale ai più giovani slegando il loro destino da quello dei genitori, ci si potrebbe riuscire in modo più efficace rafforzando aiuti e garanzie all’accesso dei giovani nel mercato dei capitali. Come è stato per esempio fatto nel decreto “Sostegni bis”, in cui è stata inserita una garanzia pubblica sulle richieste di mutuo degli under-35. E poi come si potrebbe effettuare il controllo sull’utilizzo dei fondi, che il Pd vorrebbe utilizzabili solo per spese come l’istruzione, il lavoro, l’imprenditoria e l’alloggio? I soldi sarebbero erogati tramite un’app, come il bonus 500 per la cultura? Sarebbe un esercizio assai più difficile per somme fino a 10 mila euro.

 

In realtà la soluzione a questi problemi sarebbe semplice. Investire la manciata di miliardi che Letta vuole raccogliere con la tassa di successione in modo da aiutare davvero i giovani meno fortunati. Con un investimento più forte sull’istruzione, magari quella tecnica. O sul sistema di orientamento formativo. O in alternativa – in modo ancora più semplice – riducendo le tasse o i contributi da pagare sul lavoro dei giovani. Così da aiutarli a trovare un’occupazione, e spostare la tassazione dal lavoro alle rendite senza aumentare il livello generale di pressione fiscale.


E invece purtroppo Letta sembra aver scelto un’altra strada. Travolto dalle critiche sulla tassa di successione – non sorprendenti, viste l’alta pressione fiscale e la bassa fiducia tra i cittadini – ha twittato: “Io ho fatto una proposta sui giovani. E poi, con serietà, ho parlato di come finanziarla. Ma vedo che si continua a parlare solo di patrimoni e successioni“. Insomma, delle due il Pd sembra interessato soprattutto alla dote per i diciottenni. Cioè la proposta più dimenticabile e meno coraggiosa.