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Il pareggio di bilancio e l'incostituzionalità dei trucchi per salvare i comuni in crisi

Giovanni Boggero

I tentativi di Laura Castelli di reinserire una norma che permetta agli enti locali in una situazione di predissesto finanziario di rimodulare i piani di riequilibrio e l'attenzione della Corte costituzionale

Anche tra i giuristi addetti ai lavori è molto diffusa la credenza che la cosiddetta riforma dell’articolo 81, quella che, per intenderci, ha introdotto l’equilibrio di bilancio in Costituzione, non abbia avuto alcun effetto nel disciplinare stato ed enti territoriali nella conduzione della finanza pubblica. Se è vero che non basta scolpire un precetto nelle “tavole della legge” perché si realizzino le “magnifiche sorti e progressive” – ed è quindi vero che siamo ancora molto lontani da un contesto di sana gestione finanziaria – va però osservato che dopo il 2012, anno di entrata in vigore della riforma, la Corte costituzionale è diventata molto più scrupolosa nel censurare quelle che essa stessa ha ribattezzato “leggi-proclama”, ossia leggi che ignorano i più elementari principi di contabilità pubblica in termini di stima delle entrate e delle spese. Non solo. La Consulta, servendosi del potente filtro della Corte dei conti, ha incominciato a sindacare con una certa puntigliosità anche quelle norme che cercano di distorcere proprio il quadro generale dei meccanismi contabili allo scopo di perpetuare situazioni di indebitamento endemico.

  

A questo proposito, lo scorso anno (sent. n. 18/2019) è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma contenuta nella legge di stabilità 2016 che consentiva agli enti locali in una situazione di predissesto finanziario di rimodulare i piani di riequilibrio già presentati o già approvati dalla Corte dei conti, spalmando gli accantonamenti necessari al rientro dal disavanzo su un orizzonte temporale più ampio (da 10 a 30 anni); in questo modo, l’entità delle quote annuali da accantonare si riduceva e l’ente territoriale acquisiva un margine finanziario di entità pari a quella dei mancati accantonamenti; in quello stesso arco di tempo, l’ente territoriale avrebbe avuto libero accesso alle anticipazioni di liquidità le quali, anziché essere vincolate al rientro dal deficit, avrebbero potuto essere destinate a coprire spesa corrente, creando così una spirale inarrestabile di nuovo indebitamento. Ora, questo meccanismo, nelle intenzioni del legislatore e dell’Anci, avrebbe consentito a molte amministrazioni comunali di non essere stritolate dal peso dei propri debiti e dal rischio di dissesto, evento che ogni ente territoriale di questo paese sente di dover evitare, ricorrendo, se del caso, anche a sotterfugi contabili in danno delle generazioni future.

 

Senonché, dopo che la Corte costituzionale ha spazzato via questo meccanismo di proditoria dilatazione del disavanzo, alcuni enti territoriali, per allontanare lo spettro del fallimento, sono riusciti a ottenere dal governo giallo-verde (Conte I), anche grazie al provvidenziale sostegno dell’immarcescibile viceministro dell’Economia, Laura Castelli, un nuovo strumento di manipolazione del deficit analogo al precedente (d.l. n. 34/2019). In un post pubblicato sul suo profilo Facebook subito dopo l’approvazione di tale decreto, la Castelli esultava per il grande risultato raggiunto.

 

Oggi il governo ha cambiato (un) colore, ma la viceministro dell’Economia è sempre la stessa e deve fare i conti con una nuova dichiarazione di illegittimità. Non più tardi di una settimana fa, infatti, la Consulta ha dichiarato incostituzionale anche il nuovo meccanismo, risolvendo una questione sottopostale dalla Corte dei conti calabrese, impegnata a controllare il piano di riequilibrio del Comune di Reggio Calabria (sent. n. 115/2020). Il meccanismo autorizzava, infatti, gli enti locali che si trovavano nella situazione di riproporre il piano di riequilibrio dopo la sentenza del 2019 a prolungare la durata del piano su un orizzonte non più trentennale, ma ventennale. Ma il punto, spiega la Corte costituzionale, non è solo e tanto l’orizzonte temporale dilatato, ma il fatto che sia stato reso possibile all’ente tenere una contabilità separata in spregio del principio dell’unicità del risultato di amministrazione; in questo modo, attraverso bilanci paralleli in perdita, il Comune ha potuto sottostimare gli accantonamenti da destinare al risanamento e usufruire illecitamente di anticipazioni di liquidità e di un prestito regionale per finanziare nuova spesa corrente.

   

Allo stato attuale, quindi, il bilancio del comune di Reggio Calabria andrebbe innanzitutto ricondotto a unità. Prima di tirare nuovamente per la giacca il governo e agitare lo spettro del dissesto, minacciando conseguenze nefaste per i cittadini, la classe politica dovrebbe essere animata da rispetto per la Costituzione, oltreché da un po’ di buon senso. Ora occorre riaccertare la situazione debitoria complessiva e dopodiché lasciare che la Corte dei conti calabrese verifichi la sostenibilità del nuovo piano di riequilibrio. Solo a quel punto si potranno fare valutazioni sul dissesto. I cittadini di Reggio Calabria e così quelli degli altri enti interessati dalla declaratoria di incostituzionalità hanno innanzitutto il diritto di sapere come sono state spese le risorse e quali nuovi disavanzi sono nel frattempo emersi.

 

Nessuna amministrazione locale può sottrarsi alla responsabilità di rendere il conto alla propria comunità alla fine del mandato e a ognuna è fatto divieto di intorbidarne il contenuto con quello delle passate amministrazioni. A ciascuno il suo. La Corte costituzionale vigila.

 

Giovanni Boggero

Università degli Studi di Torino