Giuseppe Conte con Ursula von der Leyen (foto LaPresse)

L'Europa si è finalmente mossa, che aspetta a farlo l'Italia?

Enrico Nuzzo

C’è un’occasione irripetibile per innescare un circolo virtuoso, proficuo e duraturo. È ora di progetti, non di proteste

La pandemia da Covid 19 causa, ovunque, sinistri scricchiolii nei sistemi economici; l’Unione Europea (Ue), col Next Generation Ue fund (NGUE), per farvi fronte, impegna poderosi capitali per i Paesi dell’eurozona più colpiti. Si rendono, così, disponibili risorse senza precedenti, in parte da non restituire (per l’Italia – contribuzione al fondo citato a parte – 82 miliardi!), vero e proprio “volume di fuoco” contro gli effetti della pandemia: fondo Sure; sospensione del patto di stabilità; tolleranza sugli aiuti di Stato; interventi di Bce, col Quantitative easing (Qe), di Bei, e così via).

 

Ostili al NGUE sembrano, al momento, i così detti Paesi frugali, propensi a concedere soltanto finanziamenti condizionati, e quelli di Visegrad (timorosi di perdere risorse). Lascia, tuttavia, ben sperare nella definitiva approvazione del NGUE, al Consiglio dell’Unione, il ruolo, ancora più incisivo, che vi saprà esercitare come suo Presidente, nel semestre che inizia il prossimo luglio, la sig.ra Merkel. La quale ultima è, di certo, anche sensibile alle non lievi sollecitazioni dei gruppi di pressione del suo Paese, prima tra di essi, la Confindustria di Berlino, particolarmente interessata al superamento della crisi di Italia e Spagna, per le stringenti interconnessioni tra i sistemi produttivi – automotive, su tutti – dei tre Paesi. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) contempla il divieto di mutualizzare i debiti degli Stati UE in crisi, per non farli dirottare su quelli dell’intera Eurozona. Il NGUE è, invece, il primo (timido?) esperimento di senso contrario, realizzato sospendendo la vigenza del ricordato divieto, previsto dell’art. 125 TFUE, essendosi, su di esso, fatto prevalere l’art. 122 TFUE. Il quale ultimo, in considerazione dell’eccezionalità della pandemia, consente misure (i) non comuni, nella portata, (ii) proporzionate al superamento della crisi Covid; (iii) temporanee e, quindi, di natura congiunturale e anticiclica; (vi) sottoposte a condizionalità, ravvisata negli obiettivi di crescita di perseguire, e con controlli sul modello della c.d. political accountability, (rendicontazione delle risorse ricevute, dei tempi e modalità della loro utilizzazione; erogazione delle stesse a rate in base a concreti obiettivi). Il tutto per investimenti (i) in tecnologie green (in una e moderna visione di piano, anche in vista di un più equilibrato assetto produttivo, da noi, tra aree sviluppate ed arretrate della penisola); (ii) nel digitale (diffusione della rete fissa a banda larga, riducendo il gap tra resto d’Europa e nostro Paese ed, al suo interno, tra le sue diverse aree territoriali); (iii) per lo snellimento dell’assetto legislativo e giudiziario (che tiene ora alla lontana i capitali esteri), abbattendo i tempi dei processi, civili, penali, amministrativi; (iv) per la sburocratizzazione degli apparati (meno autorities, autorizzazioni, conferenze di servizi, appigli legali, e via così).

 

Gli italiani, in passato, hanno saputo trasformare le crisi in opportunità ed assurgere (si pensi agli anni 60) a modelli sul versante dell’amministrazione pubblica e delle conquiste tecnologiche. Il sistema ha cominciato ad incepparsi col continuo sopravvenire, in tutti i settori, di norme incerte, parto di una legislazione erratica, parziale, progressivamente precipitata nel vigente groviglio di codicilli, disordinato e inestricabile. I lacci ed i lacciuoli (G.B. Vico), da tempo ostacoli alla crescita (G.Carli), sono divenuti incredibili e resistentissime funi d’acciaio, da recidere con un immane sforzo di razionalizzazione ed un consapevole, ed incondizionato, atto di coraggio. E' a portata di mano un’occasione (forse irripetibile) per innescare, nel nostro sistema economico, un circolo virtuoso, proficuo e duraturo. Poco avveduti, perciò, i propositi di destinare alla riduzione, ex abrupto, della nostra, pur elevatissima, pressione fiscale quanto reso disponibile dall’Unione: il paese ha necessità di recuperare fiducia sui mercati e non perseverare in dissennatezza, con scelte improvvisate, e politiche assistenziali. Interventi a pioggia, sussidi dispersi in mille rivoli, in luogo di misure concentrate sulle imprese, bruciano risorse, creano aspettative, dipendenze dal pubblico, invece di opportunità da cogliere.

 

Urgente darsi da fare, ponendo attenzione maniacale alla qualità delle scelte degli interventi ancora da programmare nel contesto di un più avanzato, e lungimirante, modello di paese. Non giovano le lagnanze sui tempi dell’erogazione dei soldi dell’Unione, insieme a semplicistiche enunciazioni, in alternativa, di vaghi disegni di crescita, da sostenere con aggiuntivo debito interno. Bce è attiva col Qe; Bei può erogare prestiti e garanzie per riconvertire imprese e per le regioni meno sviluppate; già pronto per la sanità, il finanziamento Mes (i cui risibili costi per interessi sono largamente inferiori a quelli dei titoli del Mef). Quanto alle cifre dell’Ue disponibili tra qualche tempo, si comincino ad elaborare, per impiegarle, affidabili progetti riforma e di crescita per i settori strategici e con prospettive, gli uni e le altre, sulla base di seri e ragionati piani industriali (rigorosamente corredati da cronoprogramma). L’Europa si muove; l’Italia, promesse a parte, non ancora. Perché per le opere già finanziate (si parla di 110 miliardi disponibili) non vengono ancora aperti i cantieri? La crisi in atto – questa sì – è senza precedenti: brucia sulla pelle della gente e, se non ben governata, con risposte appropriate e repentine, rischia di mettere a dura prova convivenza civile, patto sociale, relazioni tra persone, tra queste ultime e le istituzioni.

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