Giuseppe Conte (foto LaPresse)

Perché rafforzare il bonus 80 euro è una variazione del populismo

Veronica De Romanis

L'impatto di queste misure redistributive sui consumi, sull’occupazione e sulla crescita è stato davvero limitato

Roma. Il governo ha deciso di rafforzare il bonus 80 euro ampliandone la platea (l’obiettivo è raggiungere 16 milione di persone) e aumentandone l’importo. Come annunciato in questi giorni dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, il bonus verrà esteso ai lavoratori con un reddito fino a 40 mila euro annui (circa 4,3 milioni di persone) e salirà a 100 euro sia per i vecchi percettori (circa 11,6 milioni di persone con un reddito compreso tra 8.173 e 26.600 euro) sia per coloro che sono nella fascia 27 mila-35 mila euro annui. Per gli altri è previsto un meccanismo progressivo di fruizione. “Finalmente dopo sei anni di insulti, ora siamo tutti d’accordo che il bonus non è una mancetta elettorale” ha dichiarato Matteo Renzi, papà della misura e leader di Italia Viva. Stessa soddisfazione è stata espressa da altri esponenti del partito. Dal loro punto di vista, la decisione del Conte rossogiallo di rafforzare gli 80 euro dimostra che il provvedimento era – e resta – necessario perché serve ad aumentare i consumi e a far ripartire l’economia. Ma è davvero così? I dati, in realtà, raccontano una storia diversa.

 

  

Gli 80 euro furono annunciati poco prima delle elezioni europee del 2014 e messi in campo subito dopo. Per consentirne l’approvazione in poco tempo, il bonus fu disegnato male – solo per chi paga le tasse (i veri poveri, ossia coloro con un reddito inferiore a 8 mila euro, sono stati esclusi) – e implementato peggio, perché in molti hanno dovuto restituire la somma ricevuta avendo superato la soglia massima oppure avendo guadagnato meno della soglia minima: solo nel 2016 circa un milione e mezzo di persone si è trovato in questa situazione paradossale. Distribuire soldi in fretta e furia a ridosso di un appuntamento elettorale non è certo una novità. Il medesimo metodo (ma proprio uguale-uguale) è stato seguito dal governo gialloverde con l’introduzione di un’altra misura di natura redistributiva come il Reddito di cittadinanza. Anche in quel caso, la misura fu varata prima del voto europeo dello scorso anno nonostante nei centri per l’impiego non vi fossero né i cosiddetti “navigator” né le piattaforme per mettere in contatto domanda e offerta di lavoro. E, cosi, il provvedimento si è trasformato – almeno per ora – in un mero sussidio. I risultati sperati, per quanto riguarda la parte delle politiche attive, non sono ancora arrivati. 

 

 

Considerato che l’attuale governo Conte II è composto dallo stesso premier e dallo stesso azionista di maggioranza che hanno varato il Reddito di cittadinanza, non dovrebbe stupire se decide di rinforzare gli 80 euro. Diverse esperienze internazionali dimostrano che una volta introdotte misure redistributive è difficile tornare indietro perché abolirle significherebbe pagare un costo politico non indifferente. Basti pensare che lo stesso Renzi continua a far parte di una maggioranza che ha confermato nella legge di Bilancio Quota 100, nonostante la misura sia invisa al suo partito. Procedendo in questo modo si crea una sorta di “continuità” delle misure redistributive: la tentazione per ogni nuovo governo di intestarsi il “proprio” provvedimento è, infatti, forte. Sotto questo aspetto, l’Italia degli ultimi anni è un esempio perfetto: dopo gli 80 euro di Renzi sono arrivati il Reddito di cittadinanza dei Cinque stelle e Quota 100 della Lega per un costo complessivo annuo di circa 20 miliardi di euro. Queste misure sono come dei macigni posati su una costruzione che, però, ha i piedi d’argilla. In effetti, il loro impatto sui consumi, sull’occupazione e sulla crescita è stato davvero limitato: un risultato, peraltro, ampiamente anticipato da tutti i previsori internazionali ma anche dal Conte I e dal Conte II nei Documenti di economia e finanza. I dati, peraltro, indicano che le suddette risorse sono andate per lo più a lavoratori dipendenti (con gli 80 euro), a pensionati uomini che lavorano nella Pubblica amministrazione (con Quota 100) e a single (con il Reddito di cittadinanza): per i veri poveri, le famiglie numerose e i giovani senza lavoro, resta davvero poco.

 

La continuità tra governi non vi è stata solo sul tipo di misure varate ma anche sul modo in cui sono state finanziate: tagli di spesa davvero modesti, più deficit e più tasse future (Iva) attraverso il ricorso alle clausole di salvaguardia puntualmente disinnescate con più debito. Questo approccio è stato seguito dal governo Renzi (che pure è stato favorito dall’avvio del Quantitative easing della Banca centrale europea) che ha lasciato clausole pari a 12 miliardi per il 2019 e 19 miliardi sia per il 2020 che per il 2021, dal Conte (I che ha disinnescato i 12 miliardi con più debito e ha aumentato di oltre 10 miliardi quelle per il biennio 21-22 e, infine, dal Conte II che, alla stregua dei suoi predecessori, ha eliminato i 23 miliardi del 2020 con più debito e ha lasciato circa 47 miliardi di maggiore Iva. Si è, così, innescato un circolo vizioso tra spesa finanziata con debito e incrementi di tasse future che, poi, vengono evitati con ancora più debito: difficile pensare di far crescere il paese in questo modo. Se, davvero, il governo attuale vuole essere un “governo della svolta”, dovrebbe avere il coraggio di interrompere questo circolo eliminando le clausole per il ’21-22 in maniera strutturale attraverso tagli alla spesa pubblica. Dovrebbe, poi, finanziare il taglio del cuneo fiscale – a regime – attraverso un’azione seria di spending review. Altrimenti, non fa altro che replicare ciò che è stato fatto dai governi precedenti che hanno approvato misure redistributive finanziandole a debito e, quindi, a carico dei giovani che sono i veri penalizzati dall’attuale sistema.

 

In conclusione, il rafforzamento del bonus 80 euro dimostra che il metodo è sempre quello della visione corta e del consenso facile a spese delle generazioni future. Pertanto, non dovrebbe essere accolto come una conferma della bontà del provvedimento bensì come un segnale che il populismo (in forme diverse) sta prendendo sempre più piede nel paese.

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