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Rimettere in discussione la legge Fornero significa far morire l'Italia di pensioni

Luciano Capone

Per tenere la spesa previdenziale a un livello sostenibile, il paese deve pensare a come far crescere popolazione, produttività e pil. Servono riforme, non controriforme

Roma. Eccoci di nuovo al punto di partenza: cambiare la legge Fornero. Non si è ancora conclusa la “sperimentazione” di quota 100, ovvero il costosissimo regalo a una generazione di fortunati che cade in una finestra triennale, che già si pensa al dopo. A come fare un’altra “quota” per evitare lo “scalone” creato proprio da quota 100. A come modificare ulteriormente, a partire dal 2022, la riforma delle pensioni che in un periodo di grave crisi di credibilità della nostra economia ha reso sostenibile il debito pubblico nel breve periodo e la spesa pensionistica nel lungo. E così il ministro del Lavoro Nunzia Catalfo ha annunciato la convocazione di una “Commissione di esperti” per fare “la riforma definitiva della legge Fornero”, dove per riforma si intende ovviamente non solo l’introduzione di elementi di flessibilità in uscita che sono comunque auspicabili, ma di farlo aumentando la spesa pubblica.

 

L’Italia è ormai un paese ossessionato dalle pensioni, tanto che non bastano le richieste di aumento degli assegni per i pensionati e di anticipo dell’età pensionabile per i pensionandi, ma persino quando si parla di politiche per i giovani si propongono aumenti di spesa pensionistica: “quota 100” attraverso la staffetta generazionale (che come era ovvio non c’è stata) è stata venduta come una soluzione per la disoccupazione giovanile e non mancano “riscatti gratuiti” e “contributi figurativi” per le carriere discontinue dei giovani (anziché creare le condizioni per carriere continue). Per ogni problema economico c’è una spesa previdenziale che lo risolve, con un’involu\ovani attraverso i più alti contributi previdenziali dell’area Ocse con un’economia che non cresce e una popolazione che invecchia, quanto è sostenibile? Poco.

 

Secondo le proiezioni del Mef e della Ragioneria dello stato, le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico sarebbero in equilibrio: dopo l’aumento di 2,6 punti (dal 13,3 al 15,9 per cento del pil) della spesa previdenziale a causa della recessione, la riforma Fornero (da tutti i governi pubblicamente criticata ma elogiata nei documenti ufficiali) dovrebbe garantire una spesa leggermente crescente che dopo il picco del 16 per cento nel 2040 (finisce l’onda dei baby boomer) scenderà costantemente a causa del passaggio integrale al sistema contributivo, fino ad arrivare al 13 per cento nel 2070 nonostante l’invecchiamento della popolazione.

 

Ma è una previsione realistica? Non molto. Perché si basa su ipotesi demografiche e macroeconomiche molto ottimistiche. Nello scenario nazionale base la Ragioneria dello stato prevede un tasso di fecondità crescente, dall’1,34 del 2017 all’1,60 nel 2050, un tasso che l’Italia non vede dagli anni Ottanta e un saldo migratorio netto di 165 mila unità (che considerando l’emigrazione, vuol dire un flusso annuo di immigrazione di 300 mila unità). Quanto ai dati economici, la Ragioneria prevede una crescita del pil reale dell’1,2 per cento annuo (lo scorso decennio la crescita è stata zero); un aumento della produttività dell’1,5 per cento (lo scorso decennio è stata negativa); una riduzione della disoccupazione al 5,5 per cento (la metà di adesso) e un aumento del tasso di occupazione di 10 punti.

 

Le proiezioni dell’Europa (Commissione europea in collaborazione con il Gruppo di lavoro sull’Ageing e del Comitato politica economica) sono molto diverse, perché diverse sono le assunzioni demografiche ed economiche ipotizzate. Nello scenario europeo, una crescita leggermente più bassa (0,9 per cento) dovuta a una dinamica della produttività inferiore e dell’occupazione porta a una spesa pensionistica che nel picco del 2045 arriva al 18,3 per cento, superiore di quasi 2,5 punti rispetto allo scenario del Mef.

 

Ma anche questa è una stima considerato tutto sommato ottimistica dal Fondo monetario internazionale, che invece proietta la spesa pensionistica del 2045 al 20,3 per cento del pil, ovvero oltre 4 punti sopra le previsioni della Ragioneria dello stato. E questo perché il Fmi ritiene troppo ottimistico un aumento di 10 punti del tasso di occupazione e un dimezzamento del tasso di disoccupazione al 5,5 per cento (storicamente in Italia è al 9,5); considera troppo ottimistico un aumento della produttività di gran lunga superiore a quello osservato negli ultimi decenni; e considera più realistiche le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite che mostrano un invecchiamento della popolazione superiore a quello dell’Istat. Risultato: 4 punti di pil in più di spesa previdenziale rispetto alle stime italiane e 2 in più rispetto a quelle europee.

 

Questo non vuol dire che le ipotesi del Mef e della Ragioneria siano sballate, ma che per renderle reali l’Italia deve fare ciò che non ha fatto finora. Per tenere la spesa per pensioni a un livello sostenibile (seppur elevato), deve pensare a come far crescere popolazione, produttività e pil e non a come smontare la legge Fornero. Servono riforme, non controriforme. Altrimenti questo paese ossessionato dalle pensioni, di pensioni morirà.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali