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La nostalgia degli imprenditori per Salvini è molto esagerata

Alberto Brambilla

Le imprese chiedono stabilità politica, ripristino degli incentivi per investimenti e taglio del cuneo fiscale. E il leader della Lega non ha mai contrastato l’indirizzo di politica economica dell’esecutivo

Roma. Ora che il Partito democratico cerca di formare un governo con il Movimento cinque stelle è legittimo chiedersi se siano o meno rappresentati gli interessi delle imprese del nord da un’alleanza strategica, ma innaturale, tra un partito mainstream e uno anti sistema. Il M5s è caratterizzato da un piglio anti industrialista che nemmeno la Lega di Matteo Salvini era riuscita a contrastare.

 

Diversi commentatori si sono chiesti quali siano le conseguenze dell’assenza del nord produttivo nel governo rossogiallo. L’editorialista di Repubblica Stefano Folli ha individuato in quella mancata rappresentanza il “vizio di origine” del Conte bis, sostenuto da un M5s meridionalista e un Pd romanocentrico. Quest’ultimo poi ha perso Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo che aveva dato uno dei pochi fattivi contributi al progresso tecnologico manifatturiero con il programma di incentivi all’investimento Industria 4.0 e non a caso eletto europarlamentare nel nordest. Il politologo dell’Università Luiss, Giovanni Orsina, tra i primi, sulla Stampa, aveva sottolineato il “rischio di alienarsi” l’industria settentrionale che si sente orfana della Lega di Salvini al governo nelle regioni più produttive d’Italia Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte con filiere esportatrici dalla proiezione europea e mondiale. “Nel nord Italia – là dove il centrodestra governa le regioni, alle elezioni europee la Lega ha preso il 40 per cento dei voti, e con Forza Italia e Fratelli d’Italia supera largamente il 50 per cento – i favorevoli al gabinetto Conte sono meno d’un terzo, mentre gli ostili di più”, ha scritto Orsina sottolineando lo scetticismo degli imprenditori per un esecutivo troppo spostato a sinistra. Quando Salvini ha compiuto il calcolo azzardato di chiamare elezioni anticipate l’ha fatto sentendosi forte del sostegno di alcuni piccoli e medi imprenditori che avevano palesato la preferenza per il voto in ottobre. Benché vincente alle europee, la Lega non aveva possibilità di manovra perché il M5s non aveva accordato nemmeno un rimpasto nei ministeri di suo interesse (Economia, Infrastrutture e Difesa). Il ragionamento del mondo produttivo, ben spiegato dal vicepresidente di Banca Rothschild Paolo Scaroni sul Foglio (6 agosto), era che la Lega doveva liberarsi della zavorra del M5s, demolendolo in una contesa elettorale, per non essere più il junior partner della coalizione e così avere l’occasione di produrre misure pro crescita e abbattere la pressione fiscale. Promesse, queste ultime, offerte da Salvini anche nel suo tour on the beach agostano, utile soprattutto a raccogliere consensi al sud.

 

Quand’era vicepremier Salvini si è però comportato come se non fosse responsabile dell’indirizzo di politica economica dell’esecutivo. Come aveva sottolineato Marco Fortis, al di là di promesse irrealizzabili di choc fiscali in deficit e gli annunci di condoni, non ha proposto un programma per il nord, per i suoi ceti produttivi, per le Pmi e per le famiglie risparmiatrici. Quando avrebbe potuto la Lega non ha fermato le iniziative dei grillini dannose per l’industria – vedi la moratoria sulle esplorazioni e perforazioni di idrocarburi – oppure le ha avallate, vedi l’ecobonus per l’acquisto di automobili elettriche a scapito di quelle tradizionali costruite in Italia. Mentre la produzione industriale continua a scendere, la recessione tedesca pesa sulle vendite della componentistica auto e dei macchinari industriali, è difficile definire positivo il contributo di Salvini. Senza contare che le derive anti euro leghiste terrorizzavano – e a ragione – gli industriali.

 

Le imprese chiedono stabilità politica, ripristino degli incentivi per investimenti e taglio del cuneo fiscale. L’odore di un governo Pd-M5s ha ridotto lo spread e ora i rossogialli dicono di ripristinare il piano Industria 4.0 e di ridurre il costo del lavoro. Promesse come quelle salviniane. Se per cambiare l’umore degli imprenditori basta un’esca non ci vorrà molto perché si sentano rappresentati. Purché poi seguano i fatti.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.