Gianni Agnelli e Gianluigi Gabetti (foto Imagoeconomica)

Colbert degli Agnelli

Stefano Cingolani

Ha salvato la monarchia Agnelli e ha inventato Marchionne. Storia e colori di Gianluigi Gabetti (1924-2019)

Nessun regime monarchico è davvero assoluto, nemmeno quelli che si definiscono tali; il sovrano, da Ivan il Terribile al Re Sole, regna, ma governa con la sua corte di boiardi, ciambellani, mandarini, cancellieri, reggenti, persino giullari. La Fiat è sempre stata monarchica e ha avuto di volta in volta grandi cortigiani, alcuni di loro davvero fondamentali. Gianluigi Gabetti che si è spento a 94 anni, ha interpretato un po’ tutti i ruoli. E’ stato reggente e si deve a lui sia la scelta di Sergio Marchionne sia una successione senza disgregazione, il che sembra impossibile per una famiglia centenaria, numerosa (oltre 100 eredi) e complicata dove s’intrecciano tante generazioni. E’ stato un colto e accorto consigliere non sempre ascoltato dall’Avvocato (come quando venne venduta la partecipazione libica nella Fiat a un prezzo che rese Gheddafi ricco per il resto della sua vita). E’ stato un “controllore generale delle finanze”, un Colbert, solido e inventivo alla testa dell’Ifil, il polmone del gruppo, e poi nella cassaforte di famiglia. Non si può dire che sia stato un giullare. Gli Agnelli dovrebbero erigergli un monumento perché li ha salvati nel momento più critico, consegnandosi persino ai tribunali, come aveva fatto del resto, ai tempi di Tangentopoli, Cesare Romiti con il quale Gabetti non andava molto d’accordo.

 

Nato a Torino nel 1924 da un prefetto in orbace apprezzato da Gabriele D’Annunzio perché aveva combattuto da volontario nella Grande guerra, Gianluigi s’era fatto partigiano con Giustizia e libertà. Svezzato dalla Banca commerciale di Raffaele Mattioli, era stato conquistato dal fascino avvolgente di Adriano Olivetti che lo aveva inviato a New York. Qui entrò in contatto con l’Avvocato in una circostanza che più avvocatesca non si può: Gabetti sedeva nel board del Moma, il Metropolitan Museum of Modern Art e Gianni Agnelli voleva visitare il museo fuori orario, senza pubblico noioso. Così, gli chiese aiuto. Da cosa nasce cosa e dal Moma nacque un sodalizio trentennale. Gabetti ha sempre difeso Gianni pur sapendo che non aveva il fiuto degli affari che i panegiristi gli attribuivano e che Umberto era più preparato. Ha fatto da tutore a John quando ancora lo chiamavano Jaki, è diventato il paladino della proprietà, colto, appartato, affidabile e fedele, guardingo nei confronti del Lord protettore, Enrico Cuccia, il quale difendeva, ma non stimava, le grandi famiglie del capitale nazionale.

 

L’operazione chiave nella quale Gabetti ebbe un ruolo strategico, quella per la quale gli Agnelli gli debbono eterna riconoscenza, risale al biennio 2003-2005, quando, scomparsi prima Gianni poi Umberto, la Fiat è in crisi nerissima. Con abilità, organizza il riassetto del gruppo attraverso una operazione a cascata (dall’accomandita Gianni Agnelli alla Fiat passando per le due finanziarie Ifi e Ifil) che porta 1,8 miliardi di euro. Ma incombe la scadenza del prestito convertibile in azioni, concesso dalle principali banche italiane. Sicure che gli Agnelli non hanno abbastanza denaro, sono pronte a prendere il controllo della Fiat. Su un foglio di carta a quadretti, il 1° dicembre 2004, Virgilio Marrone, amministratore dell’Ifil scrive a mano una nota “riservata” per Gabetti. Se le banche esercitassero il “convertendo” anche solo per due terzi (2 miliardi di euro) “si avrebbe una diluizione della partecipazione Ifil al capitale ordinario Fiat dal 30,06 a circa il 24 per cento”. Altrimenti la famiglia dovrebbe spendere tra 351 e 497 milioni anche se in cassa ci sono appena 510 milioni. Nella scrivania di Gabetti viene scoperta anche la sbobinatura di una telefonata del 23 aprile 2005.

 

Chi parla è un noto avvocato torinese, Angelo Benessia, vicepresidente di Rcs e candidato del sindaco Sergio Chiamparino a succedere a Franzo Grande Stevens, l’avvocato dell’Avvocato, alla presidenza della Compagnia di San Paolo, principale azionista della banca Sanpaolo. Benessia legge una lettera (già nota alla Consob) in cui Lehman Brothers avanza alle banche la proposta di “investitori privati italiani ed esteri, famiglie italiane con vocazione industriale e investitori istituzionali” per creare una nuova società che realizzi un “patto di joint governance con l’Ifil” pari a circa il 50 per cento di Fiat senza obbligo di opa”. Insomma, la Fiat è scalabile e potenzialmente scalata. Due giorni dopo, il 26 aprile, la Ifil attraverso la controllata “Exor”, domiciliata nel Liechtenstein, chiude con Merrill Lynch Italia un contratto di “equity swap” per 90 milioni di azioni Fiat. La spiegazione ufficiale è che si scommette sulla rivalutazione del titolo, quindi la proprietà crede nel futuro della Fiat. In realtà è un modo per blindare il controllo violando l’obbligo di offerta pubblica. Grande Stevens riesce a convincere la Consob, ma non la guardia di finanza. I dioscuri di casa Agnelli finiscono sotto processo e nel 2013 vengono condannati a un anno e 4 mesi. Gabetti beve l’amaro calice e dichiara di essere soddisfatto per aver protetto la famiglia e la Fiat che poco prima era stata affidata a Marchionne togliendola dalle mire di Giuseppe Morchio, il manager che voleva farsi re diventando azionista della Fiat, sconfitto anche lui come Carlo De Benedetti nel lontano 1976.

 

Gabetti era uno degli ultimi testimoni (e attori) di un capitalismo italiano che non c’è più, consumato da se stesso (la sua sindrome dei Buddenbrook) e dalla fine di quel sistema politico ed economico che lo ha protetto, difeso, sostenuto. Nell’ultima intervista alla Stampa ha tirato le orecchie agli speculatori a favore degli industriali che hanno il coraggio di rischiare. E viene definito “rappresentante di quella borghesia subalpina attaccata alla propria terra, ai propri valori, ma per nulla provinciale”. Ricco, con case sparse tra Torino, Parigi, New York, gli Hamptons, Ginevra (dove si era trasferito a metà degli anni ’90), certamente è stato un esponente significativo di quella élite che oggi viene non solo insidiata (il che è fisiologico in una società aperta), ma disprezzata (il che è un male tipico di ogni società chiusa). Eppure, la globalizzazione ha spiazzato persino lui. L’acquisizione della Chrysler è stata audace, forse un azzardo agli occhi di un uomo come Gabetti. Il protetto, Marchionne, gli è sfuggito di mano. Anche l’allievo, John Elkann, è andato ben oltre le sue stesse aspettative. Ieri il capo ormai incontrastato del gruppo e della famiglia ha reso omaggio a Gabetti con stile, mettendo l’accento proprio sulla vocazione internazionale: “Scompare un uomo di grande saggezza, integrità e cultura: per quasi mezzo secolo è stato molto vicino alla mia famiglia e ha contribuito a far conoscere e apprezzare Torino e l’Italia nel mondo”, ha detto Elkann. E non ha mancato di ricordare che: “In uno dei momenti più difficili che abbiamo attraversato nella nostra storia recente, ci è stato affianco senza mai cedere davanti alle difficoltà, assumendosi difficili responsabilità con senso del dovere, che ci hanno permesso di superare un periodo buio”. Ma il gran famiglio ha chiuso la sua esistenza ormai fuori da tutto. Le monarchie temono i loro fidi, soprattutto quelli che le hanno salvate, più dei nemici che le vogliono conquistare. Oggi però dobbiamo chiederci se la nuova Fiat, la Exor-Fca, sia ancora monarchica. O se, con Gabetti, non scompaia anche l’ultima corte piemontese.