Giovanni Tria (foto LaPresse)

I guai arrivano dagli squilibri di finanza pubblica, non dall'economia privata (che va)

Marco Fortis

Facciamo di tutto per farci del male. Perché dovremo prepararci a una nuova austerità per rimettere a posto i conti pubblici

L’Italia resiliente descritta dal direttore Cerasa nei giorni scorsi, caratterizzata da un sistema economico che sembra resistere persino alla crisi “autoprodotta” dal caos giallo-verde, è un paese forte, che la Fondazione Edison ha cercato di spiegare in occasione del suo ventennale (1999-2019) in un volumetto di statistiche: “L’economia italiana in cifre” (scaricabile liberamente qui). D’altronde la resilienza dell’economia privata è confermata dalla resistenza delle esportazioni ai marosi del commercio internazionale e del protezionismo trumpista: nell’ultimo trimestre, la dinamica congiunturale dell’export verso i paesi extra europei è lievemente positiva (più 0,3 per cento) con una crescita consistente (più 1,6) al netto dei prodotti energetici, mentre nel primo bimestre di quest’anno, rispetto allo stesso periodo dello stesso anno precedente, le esportazioni italiane sono aumentate al pari di quelle tedesche (del 3 per cento entrambi), più di quelle spagnole (1 per cento) e meno di quelle francesi (7 per cento) che hanno beneficiato di commesse straordinarie nel periodo. E’ dunque un’Italia laboriosa e intraprendente quella privata che è l’esatta antitesi dei pasticci del Def 2019 presentato dal governo Conte, di cui Pier Carlo Padoan ha illustrato il 20 aprile scorso sul Foglio tutte le molteplici contraddizioni e confusioni: dall’azzeramento della crescita rispetto alle iniziali previsioni super-ottimistiche fino all’impatto pressoché nullo sul pil e sull’occupazione nel 2019-21 delle misure varate dall’esecutivo penta-leghista.

 

Ma l’aspetto più sconcertante di quel Def riguarda soprattutto la pericolosa deriva dei conti pubblici a cui stiamo andando incontro. Sconcertante perché l’Italia resiliente “che funziona”, cioè quella uscita con coraggio e sacrifici dalla doppia recessione 2008/2012-’13, davvero non merita una nuova crisi del debito. Ciò va sottolineato con forza, cifre alla mano.

 

Partiamo allora dagli ultimi dati relativi al 2018 appena concluso. Nel triennio 2015-’17 avevamo assistito a una positiva discesa del rapporto debito/pil (sia pure soltanto di qualche decimale): fatto che non accadeva da un decennio. Poi lo scorso anno questa tendenza positiva si è invertita di colpo e il debito/pil ha ripreso nuovamente ad aumentare, salendo dal 131,4 del 2017 al 132,2 del 2018. Una dinamica dovuta – come spiega lo stesso Def – alla bassa crescita del pil nominale e, per oltre 0,3 punti, all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro a fine anno.

 

E’ interessante, però, guardare non soltanto al debito/pil ma anche all’aumento del debito in valore perché è su di esso che va ad accrescersi inesorabilmente l’ammontare di interessi che lo Stato italiano deve pagare ogni anno e che costituisce una pesante eredità per le generazioni future. Ebbene, nel 2018 il debito pubblico italiano è aumentato di circa 53 miliardi di euro. Era dal 2014, con gli ultimi strascichi della crisi 2011-’13, che non cresceva così tanto, dopo aver fatto registrare l’incremento più basso degli ultimi dieci anni, pari a 36 miliardi, nel 2015 (governo Renzi). Tutto ciò premesso, che cosa ci dice adesso candidamente il Def 2019? Che quest’anno, sulla base delle previsioni programmatiche sul pil nominale e sul rapporto debito/pil, il debito pubblico italiano aumenterà soltanto di 37 miliardi, cioè poco più dell’incremento minimo record registrato nel 2015. Come potrà mai avverarsi questa magia, visto che nel frattempo la crescita del pil assunta dal quadro programmatico per il 2019 sarà solo dello 0,2 per cento e considerato che il Quantitative easing non ci sarà più e sono aumentati anche spread e interessi?

 

La risposta del Def 2019 a questa domanda cruciale, su cui limiteremo qui la nostra attenzione (senza entrare nel merito di altri aspetti controversi come le clausole di salvaguardia di aumento dell’Iva per 23 miliardi da neutralizzare), è che quest’anno dovrebbero essere realizzate privatizzazioni per 1 punto di pil, cioè per circa 18 miliardi (altre privatizzazioni per 0,3 punti di pil, cioè 5,5 miliardi, sono previste per il 2020). Ben pochi osservatori credono che una simile eventualità sia possibile nei restanti otto mesi del 2019 o che possa venire utilizzata strumentalmente per tali privatizzazioni la Cassa depositi e prestiti senza incorrere negli strali europei. Ecco allora che se le cessioni programmate non dovessero andare in porto, il valore del debito pubblico italiano quest’anno aumenterebbe di circa 55 miliardi, cioè 2 miliardi di più del già cospicuo aumento dello scorso anno.

 

L’impatto sul rapporto debito/pil in assenza delle privatizzazioni annunciate sarebbe poi devastante. Assumendo che venga realizzata perlomeno la metà del citato programma di vendite di asset pubblici, il debito/pil salirebbe comunque nel 2019 al 133,1 (anziché al 132,6 del Def, livello che già è di 4 decimali superiore al precedente record del 2018). Se poi le privatizzazioni quest’anno restassero a zero, il debito/pil balzerebbe addirittura al 133,6.

 

Gli scenari di evoluzione del debito pubblico italiano immaginati dal Def per gli anni successivi appaiono ancor più fantasiosi. Il rapporto debito/pil è ipotizzato già in calo nel 2020 al 131,3 rispetto all’ottimistico 132,6 del 2019. Merito di una previsione bella tonda di crescita del 2 per cento del deflatore del pil che porterebbe l’aumento del pil nominale al più 2,8 per cento: roba da leccarsi i baffi. Mentre le speranze di una ulteriore riduzione del debito/pil per il 2021 al 130,2 per cento si fondano su un lussuoso surplus primario delle amministrazioni pubbliche previsto per quell’anno all’1,9 per cento. Tradotto in cifre significa immaginare nel 2021 un surplus primario di circa 36 miliardi di euro, cioè un avanzo grosso modo uguale a quello monstre realizzato dal governo Monti nel 2012. I casi sono due. O il governo Conte pensa che l’economia farà affluire nelle casse dello stato imponenti somme di denaro quasi in automatico, anche in presenza di una modesta crescita del pil. Oppure dobbiamo prepararci a una nuova austerità per rimettere a posto i conti pubblici, scassati nel frattempo dal reddito di cittadinanza e da quota 100.

Di più su questi argomenti: