Foto Imagoeconomica

Le imprese esportatrici ci tengono a galla ma il genio non basta

Mariarosaria Marchesano

Non risentono del rallentamento italiano perché fanno affari fuori. Ma manca una strategia. Parla Luisa Todini (Comitato Leonardo)

Milano. Luisa Todini, imprenditrice ed ex parlamentare europea, con all’attivo incarichi come quello alla presidenza di Poste italiane, ricoperto tra il 2014 e il 2017, ha diversi punti di osservazione dell’economia italiana. Da undici anni è alla guida del Comitato Leonardo, che rappresenta 130 imprese del made in Italy – tra le quali, Armani, Brembo, Dompé, Rummo, Kartell – con un fatturato complessivo di 360 miliardi di euro, e più di recente ha contribuito a fondare una boutique finanziaria (la Green Arrow Capital) specializzata nel settore delle energie rinnovabili, con un occhio attento alle aziende con elevato potenziale di crescita. “Le imprese che aderiscono a Leonardo sono quasi tutte esportatrici, con una quota media di vendite all’estero del 55 per cento, che può arrivare all’80 per cento nel settore del design – dice Todini al Foglio – la loro produzione è più legata alla domanda estera che a quella interna e non stanno risentendo particolarmente del rallentamento economico dell’Italia. Ma proprio perché sono un’eccellenza, dovrebbe essere interesse comune aiutarle a diventare più grandi e competitive sui mercati internazionali, come hanno fatto in Francia”.

 

Secondo l’imprenditrice, il tema dovrebbe essere affrontato a livello istituzionale e politico, “attraverso incentivi e sgravi che favoriscano aggregazioni tra brand con prospettive di crescita, coinvolgendo nel processo anche le tante imprese di qualità che ci sono nel sud Italia, ma che per problemi infrastrutturali e logistici sono meno considerate dagli investitori”. Il made in Italy, se fosse un brand, sarebbe il terzo del mondo, dopo Coca-Cola e Visa, secondo una rilevazione di qualche anno fa, ma c’è un problema di dimensione e di governance delle aziende a capitale familiare, che è emerso anche nel sondaggio che Exs, la società di Executive Search di Gi Group, ha condotto al Salone del Mobile.

 

Secondo l'indagine, il genio italiano non basta e occorre creare nuovi poli per fronteggiare le grandi corporation che vogliono fare shopping a prezzi contenuti in Italia. Come dice al Foglio, Filippo Cesarino di Exs Italia, l’opinione di alcuni intervistati è che la bassa capitalizzazione e vocazione strategica delle Pmi italiane del lusso rischia addirittura di compromettere il futuro del segmento. “L’analisi è corretta – commenta Todini – Anche se può sembrare un controsenso, perché il made in Italy è fatto soprattutto di nicchie di mercato, bisognerebbe arrivare a creare dei campioni nazionali com’è successo nel campo delle costruzioni, che è stata l’attività della mia famiglia. Il controllo a tutti i costi non è sempre un bene e un’azienda può svilupparsi molto più velocemente con l’aiuto di nuovi soci e nuovi capitali. Così potrebbero nascere aggregazioni italiane interessanti”. Qualcosa, però, si sta muovendo, come dimostrano gli ultimi dati sul private market: nel 2018 le imprese italiane hanno usufruito di 10 miliardi di finanziamenti privati – erogati da fondi specializzati – il doppio dell'anno precedente. “Se nel capitale sociale entra un socio finanziario, magari estero, questo non vuol dire che l'azienda smette di essere italiana. Occorre un salto di qualità non solo da parte delle famiglie azioniste, che hanno un approccio difensivo anche di fronte a cambi generazionali che mettono a rischio la continuità, ma a livello governativo: se si vuole rafforzare il made in Italy bisogna farlo crescere anche favorendo processi di delocalizzazione sul territorio nazionale”. E i Pir, che sono nati proprio con l’obiettivo di far crescere le pmi italiane? “E’ un strumento interessante, ma andrebbe ripensato – conclude Todini – Non mi risulta che le risorse raccolte siano arrivate alle imprese e all’economia reale”.

Di più su questi argomenti: