Mario Draghi (foto LaPresse)

Draghi e Buti, quando gli “euroburocrati” hanno più visione dei politici

Luciano Capone

Per fare le riforme che servono all’eurozona, da cui l’Italia trarrebbe giovamento e su cui c’è un accordo di massima, “deve essere ricostruita la fiducia reciproca”

Roma. Si avvicinano le elezioni europee e ci si chiede se qualcuno stia preparando un programma che guardi ai cambiamenti necessari per creare un ambiente istituzionale più resistente e favorevole alla crescita. Dopo tanti anni in cui l’Europa ha parlato delle riforme strutturali che gli stati dovevano sostenere, è il momento che negli stati membri si discuta delle riforme strutturali che servono all’Europa. La sensazione invece è che in Italia la campagna elettorale per le europee sarà una riproposizione – una specie di secondo turno – delle politiche dello scorso anno. E infatti si discute più dell’impatto che queste elezioni avranno sulle sorti del governo nazionale che sul futuro dell’Unione.

  

Questo è ciò che accade a livello dei partiti. Ma anche a livello istituzionale, la discussione non è molto centrata rispetto al dibattito europeo. Mentre tutti discutono del completamento dell’Unione bancaria, della possibile trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) in Fondo monetario europeo e di un budget comune per stabilizzare l’Eurozona, l’Italia ha presentato attraverso l’ex ministro Savona un progetto di stravolgimento della Bce in modo che monetizzi i deficit degli stati. In pratica il governo ha fatto elaborare una proposta, su cui in Europa nessuno è d’accordo e che nessuno intende mettere all’ordine del giorno, da un ministro che, dopo pochi mesi, ha spostato alla Consob.

  

Si ripete di continuo che i burocrati – soprattutto quelli europei – siano “grigi” se non addirittura “ottusi” e che ai politici spetti la “visione”. Ma al governo italiano, e alla politica più in generale, a parte la solita richiesta di “maggiore flessibilità” e la vaga intenzione di “rivedere le regole”, non pare che interessi come cambiare l’Europa. Ci sono due italiani che recentemente hanno tratteggiato, in maniera abbastanza lucida, quali sono i risultati raggiunti dall’Unione monetaria e quali sono i passi da fare per il suo completamento. E non sono due politici, ma due “euroburocrati”. Il primo è il presidente della Bce Mario Draghi, che in un discorso alla Scuola Sant’Anna di Pisa sui vent’anni dell’euro ha ricordato i successi dell’Unione monetaria e cosa ancora manca: “Il completamento dell’unione bancaria e del mercato dei capitali” e “la costruzione di una capacità fiscale del bilancio comunitario” che funzioni da stabilizzatore temporaneo in caso di crisi.

   

Il secondo “euroburocrate” è Marco Buti, il direttore generale per gli Affari economici e finanziari della Commissione europea (il “guardiano dei conti” a Bruxelles) che, un po’ come Draghi, in questi anni è stato criticato da entrambe le parti: una colomba della flessibilità per i paesi del nord e un falco dell’austerity per quelli del sud. In un articolo su VoxEu (“The euro - A tale of 20 years”) e in una serie di presentazioni sui 20 anni dell’euro, Buti – esattamente come Draghi – ha ricordato i motivi politici e teorici alla base dell’euro (il superamento del “quartetto inconsistente” di Padoa-Schioppa) e ha ripercorso la vita di questa moneta “ragazzina” suddivisa in due decenni, con la crisi come spartiacque. La crisi finanziaria ha evidenziato le debolezze strutturali della moneta unica e segnalato la necessità di grandi riforme: maggiore coordinamento delle politiche fiscali, Esm per l’assistenza finanziaria agli stati in difficoltà, Unione bancaria (vigilanza e risoluzione), whatever it takes della Bce per arginare il contagio di crisi locali. Mancano ancora altri pezzi: il completamento dell’Unione bancaria (garanzia comune per il Fondo di risoluzione e assicurazione comune dei depositi), l’avanzamento dell’Unione dei mercati dei capitali, riforma dell’Esm, un sistema centrale di investimenti in funzione anticiclica, un bilancio dell’Eurozona. Su queste riforme c’è un largo consenso, ma ciò che le impedisce è la mancanza di fiducia tra paesi creditori e paesi debitori. Non a caso, Buti ricorda che il whatever it takes monetario della Bce è stato possibile solo dopo il whatever it takes politico dei leader europei che nel Consiglio del giugno 2012 hanno affermato il “forte impegno a compiere quanto necessario per assicurare la stabilità finanziaria della zona euro”.

  

Per fare le riforme che servono all’eurozona, da cui l’Italia trarrebbe giovamento e su cui c’è un accordo di massima, serve quindi una condizione politica preliminare: “Deve essere ricostruita la fiducia reciproca”, scrive Buti. Ma i partiti di maggioranza che annunciano di voler infrangere le regole fiscali e il governo che propone la trasformazione della Bce in una stamperia a disposizione del Tesoro pensano di ottenere qualcosa? Non si rendono conto che così anziché “ricostruire la fiducia reciproca” minano la residua credibilità del paese?

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali