Angela Merkel (foto LaPresse)

Così si muove il laboratorio delle fusioni (di stato) in Germania

Filippo Maria Aloatti*

Dopo errori passati il matrimonio tra Deutsche e Commerz sarà travagliato ma è spinto dalla Cancelleria

Londra. Il non ancora cinquantenne e austero originario della Vestfalia Christian Sewing aveva abilmente schivato la gran parte delle domande degli insistenti analisti quel recente primo febbraio, data dell’annuncio dei risultati trimestrali dell’ex titano bancario germanico Deutsche Bank. Pignolo, rimandava agli obiettivi strategici concordati con gli investitori e sanciti nel suo piano di incentivo aziendale. Fiero, ricordava l’obiettivo di costi per 23 miliardi di euro per l’anno fiscale 2018, non solo raggiunto ma anche superato. Una rarità da un po’ di tempo a questa parte per quello che ora anche la stampa tedesca ha iniziato a chiamare gigante dai piedi d’argilla. Imperterriti i “number cruncher” continuavano a chiedere lumi su Commerzbank, un tempo temutissima rivale di Deutsche. Al diniego ripetuto del sagace tennista Sewing faceva eco il febbrile lavorio nei lunghi corridoi del colossale Detlev-Rohwedder-Haus, già sede del Reichsluftfahrtministerium, la temuta Luftwaffe. Ove ai nostri giorni ha sede il potente ministero delle Finanze tedesco.

 

A capo, nell’attuale governo Merkel III, vi è il pragmatico giurista socialdemocratico Olaf Scholz. L’ex sindaco di Amburgo Scholz dibatteva i meriti di una forte moral suasion governativa nei confronti del conterraneo Sewing. Il ministro poteva contare sull’analisi redatta dalla squadra intorno al suo sottosegretario, l’assiano Joerg Kukies. Costui, sottosegretario con delega ai mercati finanziari e agli affari europei è considerato il vero ambasciatore finanziario del governo presso i mercati finanziari, forte dei suoi tre lustri al vertice della sussidiaria tedesca di Goldman Sachs. Argomentava Kukies la necessità per la locomotiva economica d’Europa di creare un campione nazionale nel frammentato panorama bancario tedesco. Kukies schivava le obiezioni degli altri sottosegretari e degli inviati della Cancelleria che restavano scettici sulla lunga sfilza di incontri nel 2018 tra i vertici delle due banche e quelli istituzionali. Non una novità, considerato il Dna dirigista di buona parte dei governanti europei. Con l’eccezione che i matrimoni sinora si sono arrangiati nei settori “strategici” (trasporto, manifattura, energia o difesa) non ancora nel settore finanziario. O meglio, non tra due banche sistematicamente rilevanti per la zona euro e non minacciate visibilmente da imminenti crisi. Una sorta di intervento in largo anticipo che crea un precedente e che potrebbe fare scuola.

 

A giustificare economicamente questo intervento le sinergie ottenibili potrebbero essere notevoli, fino a un quarto dei costi della preda Commerzbank. Siamo su percentuali simili a quella della fusione che ha dato vita a Unicredit nel 1998, prima di una lunga serie e completatasi con l’acquisto di Capitalia del 2007. Anche lì c’erano 800 milioni di euro di sinergie in ballo, pari al 25 per cento dei costi della banca romana. Certo molto è cambiato in Italia dalla foresta pietrificata degli anni Novanta di amatiana memoria. Molto anche in Europa dopo l’avvio della zoppa Unione bancaria.

 

Il marziano di Flaiano, atterrando oggi nel Vecchio continente, avrebbe difficoltà a riconoscere sistemi bancari come quello spagnolo, dove sono sparite le un tempo potenti casse di risparmio locali, le Cajas, o quello irlandese e greco ridotti a oligopoli. Fedeli all’equazione francofortese, lato supervisore unico, per cui frammentazione è uguale a bassa profittabilità. Le fusioni quindi sono come chimere per un settore desolato? Osserviamo gli elementi in favore delle aggregazioni. Sicuramente la struttura dei tassi europei, curve appiattite, tassi negativi a breve appesantiscono i conti economici delle banche commerciali europee e la disfida proveniente dai distruttori del mondo Fintech, Resolut, Square, TransferWise oggi e forse domani Amazon, Google o AliBaba, non va sottovalutata. La frammentazione di taluni mercati, gli ingenti investimenti per la digitalizzazione dei canali di vendita tradizionali congiunti all’aumento dei costi di compliance con le nuove e esose norme di regolamentazione bancaria spingono in quella direzione. Si aggiunga l’attenzione dei supervisori ai crediti inesigibili o ai titoli illiquidi e la risultante necessità di ulteriori accantonamenti. Ancora più stringente la difficoltà di accrescere i ricavi in un contesto economico stagnante. Al settore borsistico bancario è d’altronde affibbiato l’epiteto “ex growth”. Non lasciando molte alternative ai vari ceo se non l’imperituro agire sui costi fissi.

 

Quale miglior medicina delle vecchie fusioni? La demografia di certi mercati, Germania e Italia in primis, e la mancata diffusione dell’ultimo miglio di contro si oppone a una digitalizzazione troppo spinta. In terra tedesca fusioni domestiche hanno già interessato Deutsche e Commerz. La prima convolò a nozze con Deutsche Postbank (Dpb) nel 2010, una fusione travagliata che non ha portato i risultati sperati. Soprattutto quando confrontata con l’acquisto di Diba Bank da parte dell’olandese Ing, perfezionato nel 2003. Ing-Diba è una invidiata banca on-line: più di un miliardo di euro di utile netto, 40 per cento rapporto costi/ricavi – contro il 70 e passa dei due giganti – nove milioni di clienti, raddoppiati nell’ultima decade, crediti non performanti inesistenti e un solido coefficiente di patrimonio, Cet1 del 13 per cento. Lato Commerzbank non si festeggia per le due disastrose acquisizioni, Eurohypo (2005) e Dredner Bank (2008). Quest’ultima ha portato in caso lo stato con una quota di circa il 15,6 per cento dopo l’onta di un paio di passaggi attraverso il SoFFIN, il fondo di ricapitalizzazione statale. Deutsche dovrebbe lanciare un mega aumento di capitale per comprarsi Commerzbank e poi sudare per metter in pratica una fusione chi si annuncia difficile, con un taglio di costi importante. Riflettori puntati e agitazioni sindacali già annunciate, ma vale la pena per cercare di ridare smalto agli anchilosati dinosauri. Intanto in Spagna l’andalusa Unicaja si prepara a convolare con Liberbank di Madrid, mentre la galiziana Abanca vorrebbe intromettersi. E l’Italia? Se non ora quando?

 

*Filippo Maria Aloatti, senior credit analyst, Hermes Investment

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