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A che punto è la guerra economica contro Maduro

Maurizio Stefanini

Dopo l’americana Citgo anche la russa Lukoil congela i contratti con il Venezuela

Roma. A parole Vladimir Putin manifesta appoggio a Nicolas Maduro, ma nei fatti le major russe mostrano di non avere la minima intenzione di sostenere i costi della guerra economica scatenata da Donald Trump contro Maduro, e lasciano il regime di Caracas senza benzina. Non appena si è saputo del congelamento di 7 miliardi di dollari di asset della Pdvsa negli Stati Uniti, oltre che degli 11 miliardi di dollari dell’export, la Lukoil ha infatti a sua volta congelato il suo contratto per la fornitura di prodotti petroliferi al Venezuela. 

 

Secondo secondo il corrispondente del Wall Street Journal, Anatoly Kurmanaev, che ha rivelato la notizia, a questo punto il Venezuela avrebbe carburante per soli dieci giorni. Per la raffinazione il paese dipendeva infatti soprattutto dagli Stati Uniti, e in alternativa si era affidato a crescenti importazioni di prodotti finiti dalla Russia. Non solo, anche altri fornitori avrebbero preso una posizione analoga. Per di più, il ministero delle Finanze di Mosca ha al contempo reso nota una dichiarazione secondo la quale si aspetta che Caracas paghi regolarmente la prossima rata di 100 milioni del debito in sospeso con la Russia. Senza nessuna possibilità di dilazione riguardo al fatto che il principale rubinetto di valuta per Maduro è stato bruscamente chiuso.

  

 

Insomma, per Maduro è già un colpo da k.o., prima ancora che si realizzi l’ulteriore scenario di trasferire gli utili congelati direttamente a Juan Guaidó. “Per evitare che l'usurpatore e la sua banda cerchino di raschiare il fondo del barile continuando a rubare soldi ai venezuelani, finanziando delitti a livello internazionale e usando questi soldi per torturare il nostro popolo (...) ho ordinato il trasferimento dei conti correnti della Repubblica sotto il controllo dello Stato e delle sue legittime autorità”, ha scritto lo stesso Guaidó su Twitter. La Petróleos de Venezuela, fondata con la nazionalizzazione del 1976, è tuttora la quinta compagnia petrolifera del mondo per riserve sfruttate, e il Venezuela è il primo paese al mondo per riserve private. Ma la stessa Pdvsa è precipitata al 13esimo posto per entrate. Da 3,1 milioni di barili al giorno che estraeva quando Chávez arrivò al potere adesso sta attorno a 1,5 milioni, di cui un milione esportati. Tra il 41 e il 50 per cento metà negli Stati Uniti, Il fatto che pur dopo il licenziamento di 23.000 antichavisti la società sia passata da 40.000 a 150.000 dipendenti dà un quadro eloquente dei criteri di gestione che hanno condotto al disastro. Comunque dal petrolio proviene il 96 per cento della valuta da cui dipende il Venezuela.

 

In più negli Stati Uniti la Pdvsa controlla Citgo, società di raffinazione e distribuzione che con le sue 60 mila stazioni di servizio è una delle sei più grandi degli Stati Uniti. Fondata nel 1910 da Henry L. Doherty col nome di Cities Service Co., riconvertitasi come attività principale al petrolio dopo la scoperta di un grande giacimento in Kansas nel 1915, diventata nel 1965 Citgo per specializzarsi nella fornitura diretta ai consumatori, dopo essere stata acquistata nel 1982 da Occidental Petroleum nel 1986 fu acquistata per il 50 per cento da Pdvsa, che rilevò l’altro 50 per cento nel 1990. La Citgo fu colpita da un boicottaggio di consumatori nel 2006 dopo che Chávez aveva definito George W. Bush “il diavolo”, ma a livello ufficiale non aveva mai avuto problemi. Finora. Come ha spiegato il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin, la Citgo potrà continuare a operare e a ricevere petrolio dal Venezuela, ma gli utili invece che alla Pdvsa saranno versato a un conto bloccato, che appunto in un secondo momento potrebbe essere girato a Guaidó.

 

In effetti, la dipendenza non era solo del Venezuela dall’export negli Stati Uniti ma anche degli Stati Uniti dall’import di greggio venezuelano. Ma ormai lo shale oil ha rinvigorito la produzione nazionale, e comunque ogni contraccolpo nel breve periodo può essere compensato con le riserve strategiche. Ma avrebbero problemi una quantità di raffinerie che soprattutto nella zona del Golfo del Messico si sono specializzate nel pesante greggio venezuelano. Tra l’altro si tratta di aree che votano repubblicano, e da cui era venuta negli ultimi mesi a Trump una pressione per non esacerbare troppo la tensione con Caracas.

 

L’esposizione venezuelana è però molto più pesante, in particolare per il governo di Caracas, i cui fondi dipendono per almeno il 70 per cento da questo “rubinetto” americano. Non c’è peraltro solo il petrolio. Guaidó ha scritto anche al governo di Theresa May e al governatore della Bank of England, Mark Carney, per bloccare il rimpatrio di circa 31 tonnellate di oro che il governo aveva depositato nella Banca centrale di Londra.

 

“Prenderemo tutte le misure legali, tecniche e commerciali per difendere gli interessi del Venezuela negli Stati Uniti dopo l'annuncio di queste sanzioni illegali e criminali”, promette Maduro. Ma se queste società sono di stato e la Casa Bianca riconosce ormai come legittimo capo dello stato Guaidó ci sarebbe poco o niente a cui appigliarsi. Conflitto istituzionale a parte, Washington accusa da tempo vari gerarchi del regime venezuelano di narcotraffico e altre attività illegali, e molti di loro erano già sotto sanzioni. “L’azione di oggi assicura che non si potranno più saccheggiare gli attivi del popolo venezuelano”, ha spiegato il consigliere di sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton.

 

In effetti Maduro potrebbe rispondere tagliando la vendita di petrolio agli Stati Uniti, e dirigendo il mezzo milione di barili verso altri mercati. Ma Cina e India, principali acquirenti alternativi, essendo più lontani comportano maggiori costi di export. E per di più non pagano in contanti, ma scontando prestiti che il Venezuela ha già incassato e speso. Gli Stati Uniti per conto proprio correvano il rischio teorico che Maduro aumenti i propri legami con Mosca e Pechino, aumentando la loro presenza nel “cortile di casa” latino-americano. In pratica, però, la Cina ha già mostrato da tempo la sua poca voglia di rischiare soldi, e la Russia sta ora facendo altrettanto. Putin può mostrare i muscoli mandando aerei e soldati per sostenere militarmente Maduro, ma non gli va evidentemente di pagargli gli stipendi ai militari per conto suo.

 

Un rischio più grave è che la mossa possa esasperare ulteriormente l’emergenza umanitaria del Venezuela, con esiti imprevedibili Secondo gli analisti, averla presa significa evidentemente che l’Amministrazione Trump ritiene ormai Maduro alle corde, e non in grado di reggere a questo braccio di ferro ancora per molto tempo.  

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