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Si poteva evitare di caricare Carige sui contribuenti. Parla Boitani

Marco Cecchini

Secondo l'economista, docente dell'università Cattolica, l'istituto di credito è “ad alto rischio di fallimento. Perché non procedere alla risoluzione della banca?”

Roma. Al capezzale di Carige l’attività dei commissari è sempre più frenetica: sondaggi presso gli investitori sull’emissione di un bond da 3 miliardi garantito dallo stato, contatti con le società specializzate nella compravendita di Npl, ricerca spasmodica di un compratore per i due istituti controllati (Banca Ponti e Banca di Lucca) e soprattutto caccia a un partner con cui fondersi.

 

L’attivismo dei commissari riflette il grado di urgenza assunto dalla messa in sicurezza di una banca che secondo l’economista Andrea Boitani è “ad alto rischio di fallimento”. Perché i dati della relazione trimestrale di settembre sono eloquenti: 2,7 miliardi di perdite negli ultimi cinque anni, 2 miliardi di aumenti di capitale bruciati, la capitalizzazione di borsa crollata, i crediti deteriorati al 23,5 per cento del totale, ulteriori perdite per 189 milioni nei primi nove mesi dello scorso anno, ricavi stagnanti e prospettive di un ritorno all’utile lontanissime.

 

“A questo punto – dice il docente della Cattolica milanese al Foglio – ci si chiede: perché non procedere alla risoluzione della banca? Perché il governo si è affrettato a offrire garanzie su nuove emissioni obbligazionarie e a prospettare addirittura una ricapitalizzazione precauzionale? Perché, in una parola, immettere altro denaro pubblico in un istituto in profonda e perdurante difficoltà?”.

 

L’esecutivo gialloverde ci ha detto che lo stato è intervenuto per tutelare i risparmiatori. Ma la verità è tutt’altra. Il quadro è questo. La risoluzione, come il bail-in, penalizza gli azionisti, gli obbligazionisti di vario grado a cominciare dai subordinati e i depositanti sopra i 100mila euro. Ma i depositanti sotto i 100mila, cioè la maggioranza, sono garantiti dal Fondo tutela dei depositi. Nel caso di Carige inoltre, diversamente da altri non c’erano obbligazioni subordinate in circolazione in mano ai risparmiatori. Dunque, evitando la risoluzione – ovvero la liquidazione gestita da Francoforte – si è impedito fondamentalmente che a pagare fossero gli azionisti (peraltro avevano già fatto la loro parte) e i depositanti sopra i 100mila euro e si è evitato soprattutto l’intervento del Fondo di tutela dei depositi.

 

Spiega Boitani: “L’intervento del Fondo di tutela dei depositi avrebbe comportato per il resto del sistema bancario un esborso di almeno 9 miliardi, dunque un costo altissimo che avrebbe potuto scuotere dalle fondamenta il sistema bancario italiano”. Probabilmente la scelta era obbligata onde evitare un allargamento a macchia d’olio della crisi da un singolo istituto al sistema. Ma la traduzione politica della soluzione prescelta è che il governo gialloverde, al di la delle parole, più che dei risparmiatori si è occupato degli odiati banchieri. Adesso le strade percorribili sono due: la fusione con una azienda di credito più solida, “che però come fece Intesa Sanpaolo nel caso delle banche venete richiederà una dote pubblica consistente per farsi carico di Carige” o la ricapitalizzazione precauzionale in stile Mps.

 

In altre parole, ancora denaro dei contribuenti, ulteriore debito che saranno le generazioni future a pagare. Basta pensare che il salvataggio delle venete ha comportato un esborso di 4,8 miliardi a favore di Intesa e quello di Mps di 5, cinque miliardi che ai valori di Borsa attuali del Monte sono già andati in fumo. “Negli Stati Uniti, quando un istituto è in difficoltà, gli azionisti vengono sacrificati, la Federal Reserve entra nel capitale, caccia il management, lo rimette in bonis e poi lo rivende. In Europa le nuove regole sui salvataggi bancari faticano ad essere metabolizzate”. Da un lato, contribuiscono ragioni culturali che portano a considerare le banche imprese un po’ speciali, dall’altro lato, precisa Boitani “per l’incompletezza della Unione bancaria”. “Se ci fosse un Fondo europeo di tutela dei depositi – dice – il costo della protezione dei risparmiatori per il sistema bancario nazionale verrebbe spalmato infatti su un fronte più ampio. Ma i paesi con sistemi del credito più solidi si rifiutano comprensibilmente di pagare per quelli dove le banche sono più fragili. E quelli dove le banche sono più fragili faticano nel risanamento”. Ciò detto, conclude comunque Boitani, “è troppo pretendere che si scelga l’opzione meno costosa per i cittadini contribuenti tenendo conto non solo degli esborsi presenti ma anche dei possibili rientri futuri e magari senza creare ulteriori conflitti con la Commissione e le Autorità di Vigilanza europee?”.

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