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C'è un nesso tra le “riforme dimezzate” e la crescita che si è fermata

Renzo Rosati

E’ destino dei riformisti perdere le contese elettorali, capita ai successori di azzerare i loro progressi. Un saggio in uscita

Roma. A settembre 2014, sette mesi dopo l’insediamento di Matteo Renzi a palazzo Chigi, il pil dell’Italia registrava un calo trimestrale dello 0,1 per cento; il che riportava il tasso di crescita ai livelli del 2000. Cioè a ben prima del balzo globale dell’economia interrotto dal crac Lehman Brothers (2008) e dalla ben più grave, per noi, crisi del 2011. Sempre in quel mese i disoccupati erano saliti al 12,6 per cento, il 42,9 tra i giovani. In cifra assoluta 3,2 milioni, il peggior valore dall’inizio delle serie storiche dell’Istat, con una media di 50 mila posti di lavoro persi al mese. Nel quarto trimestre la disoccupazione raggiungerà il 13,3 per cento mentre si fermerà la discesa del pil, interrompendo la più profonda recessione del dopoguerra.

 

Tre anni e mezzo dopo, passati i due governi di Renzi e Paolo Gentiloni, alla data delle elezioni del 4 marzo 2018 l’Italia era risalita di cinque punti di pil; la disoccupazione era scesa all’11 per cento (proseguirà fino al 9,7 ad agosto per risalire a settembre), recuperando un milione di posti di lavoro. I risultati insomma cominciavano ad arrivare e adesso è un incognita. Non per caso si intitola “Le riforme dimezzate” il saggio in uscita di Marco Leonardi (Università Bocconi Editore, 144 pagine, 15,50 euro), tra i tecnici che da quel settembre 2014 hanno lavorato come consigliere economico negli staff di Renzi e Gentiloni occupandosi di lavoro, cioè Jobs Act ma anche contratti aziendali e incentivi per Industria 4.0, e pensioni, cioè attuazione della legge Fornero.

 

Leonardi, 46 anni, ordinario di Economia politica alla Statale di Milano, è convinto che le riforme definite strutturali debbano essere fatte, e mantenute, non solo per soddisfare agli impegni europei quanto per modificare, nella struttura appunto, le debolezze economiche e sociali di un paese. Andando a toccare punti critici, e sensibili, queste riforme sono però nell’immediato poco accette dalla popolazione: “Non sono riuscite a cambiare la percezione politiche degli elettori”, scrive Leonardi, riferendosi alla sconfitta del Pd e al successo di forze che hanno basato la propaganda sullo smantellamento del Jobs Act e della legge Fornero. Questo, nonostante i buoni risultati e il guadagno sul piano della credibilità sui mercati, guadagno dissipato con i 200 punti in più di spread, l’imminente apertura di procedura d’infrazione per debito contro l’Italia e gli ispettori del Fondo monetario internazionale tornati come nel 2011 a Roma.

 

Non è quasi mai destino dei riformatori strutturali di essere premiati dagli elettori. Non lo fu Gerhard Schröder con le leggi sul lavoro tedesche, né George Osborne, cancelliere dello Scacchiere del governo conservatore inglese di David Cameron: neppure i tassi di crescita strabilianti per l’Europa e la disoccupazione ai minimi sono bastati a reggere l’urto populista della Brexit. Al contrario, gli elettori hanno premiato le riforme a base di tagli e bonus fiscali – da Ronald Reagan a Bill Clinton, e in Italia anche Renzi. Ovvio, si direbbe. Ma sia Reagan sia Clinton intorno al loro liberismo conservatore il primo, progressista il secondo, sono riusciti a costruire una narrazione storica, tanto che si parla di era Reagan ed era Clinton. Se questo non è accaduto a Renzi e Gentiloni si deve, secondo Leonardi, a una serie di fattori: la mancanza di un apparato tecnico, stabile e strutturato, di supporto ai premier; il disallineamento con gli snodi chiave dell’economia e delle istituzioni (banche, Banca d’Italia, organismi rappresentativi). Si può aggiungere la convinzione nazionale che le riforme non siano patrimonio di un paese ma feticci da abbattere al cambio di colore. In questo l’Italia è un caso quasi unico: il Regno Unito conserva tuttora il meglio di Margaret Thatcher, mutuato da Tony Blair e Cameron; la Germania merkeliana non ha distrutto le riforme socialdemocratiche; la Spagna di Pedro Sanchez non rinnega la stabilità di Mariano Rajoy; fino a Donald Trump negli Stati Uniti è individuabile una continuità tra Reagan, Clinton e perfino Barack Obama. Mentre qui è proclamato in modo muscolare il “cambiamento”: come se l’Italia non avesse vissuto il proprio boom economico molto prima che Di Maio nascesse e Matteo Salvini frequentasse Radio Padania. La sensazione è che si rimpiangerà il (miglior) renzismo, soprattutto il coraggio nelle leggi sul lavoro e la vista lunga sul destino digitale dell’industria. “La storia sarà gentile con te”, disse Renzi a Obama, già con Trump alla Casa Bianca e in pieno spleen dei democratici. La riabilitazione serpeggia, per ora è il libro di Michelle a sbancare.

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